Cultura

Riscoprire il passato per navigare il futuro: la lezione di Ken Burns

Barbara Leone
 
Riscoprire il passato per navigare il futuro: la lezione di Ken Burns

Mai come oggi, riscoprire la trama profonda della Storia significa recuperare il senso della cittadinanza, dell’identità, della responsabilità. Perché nel nostro presente tumultuoso, in cui l’eco di un nazionalismo miope e autoreferenziale torna a riecheggiare nei palazzi del potere - basti pensare alla retorica sovranista e antistorica che Donald Trump, con spavalda ignoranza, ha saputo trasformare in progetto politico - appare più che mai urgente rifugiarsi nel porto sicuro della Storia. Che è una bussola.

Riscoprire il passato per navigare il futuro: la lezione di Ken Burns

Ma, nelle mani di chi non ne sa leggere le coordinate e anzi le manipola negandole, diventa un’arma spuntata, o peggio, un abisso che si ripete. Ed è proprio in un tempo in cui i popoli sembrano avanzare smarriti tra le nebbie dell’iperpresente, che l’arte di Ken Burns si staglia come un faro nella tempesta.

Le sue narrazioni - dense, corali, lucide - restituiscono infatti alla memoria collettiva ciò che la didattica convenzionale spesso non riesce a trasmettere: l’anima viva del passato. E lo fanno non con fredde cronologie o sterili elenchi di eventi, ma con l’emozione vibrante della scoperta, della riflessione, dell’empatia.

Dagli anni Ottanta a oggi, Burns ha saputo trasformare i grandi snodi della storia americana - e, per estensione, della condizione umana - in racconti visivi di struggente intensità. Il suo tocco inconfondibile, fatto di archivi preziosi, testimonianze autentiche e musiche evocative, ha saputo dare voce non solo ai grandi protagonisti, ma anche alle figure minori, ai dimenticati, ai silenziosi costruttori di un destino collettivo.

"Non voglio raccontarvi storie su ciò che so'', confida Burns alla giornalista della BBC Katty Kay in un’intervista concessa nella quiete pensosa della sua casa nel New Hampshire. "Preferisco condividere con voi un processo di scoperta'', spiega.

È questa tensione verso l’ignoto, questo desiderio quasi socratico di apprendere attraverso la narrazione, che conferisce ai suoi documentari un’aura quasi epica. Che si tratti del lirismo del jazz, del pathos del baseball o della vastità sublime dei parchi nazionali, ogni opera di Burns diventa un pretesto per interrogare ciò che siamo stati e ciò che potremmo ancora essere. Il suo approccio non è mai apologetico: la storia, nel suo racconto, non è mai uno strumento di propaganda, ma un prisma attraverso cui osservare il caleidoscopio umano, con le sue grandezze e le sue vergogne.

Il suo ultimo e ambizioso progetto, The American Revolution, ne è la summa e, forse, il vertice. In sei puntate dense e magistralmente orchestrate, in onda su PBS dal 16 novembre, Burns invita a rivivere uno degli eventi più catartici della storia moderna: la nascita degli Stati Uniti d’America. Ma più ancora della cronaca militare, ciò che affascina è il sottotesto filosofico, morale e antropologico di quella Rivoluzione.
"È uno degli eventi più importanti della storia umana'', afferma senza esitazione Burns.

"Siamo passati dall’essere sudditi all’inventare un nuovo concetto: cittadini". Perché quella americana non fu soltanto una guerra di indipendenza, ma una rivoluzione ontologica, un cambiamento di paradigma. Il mondo non fu mai più lo stesso dopo quel 1775. Le idee di autodeterminazione, rappresentanza, diritti naturali, si irradiarono come un’onda sismica verso tutte le latitudini, scuotendo monarchie, caste e privilegi secolari.
Tuttavia, Burns non si rifugia mai nella tentazione dell’epica univoca. La sua narrazione include voci spesso estromesse dai racconti ufficiali: afroamericani, nativi, donne, spagnoli. "La Rivoluzione fu una lotta internazionale incredibilmente complessa", sottolinea.

E, come tale, merita una narrazione completa, stratificata, non edulcorata. Non ci sono eroi immacolati nel suo racconto. George Washington, ad esempio, è ritratto nella sua grandezza strategica, ma anche nella sua fede incrollabile e nei suoi limiti umani. Mentre Benjamin Franklin, sebbene geniale, viene ricordato come proprietario di schiavi, una contraddizione morale che non viene nascosta, ma esaminata.

“Essere patrioti non significa cancellare il passato,” dichiara Burns con fermezza. E in un’epoca in cui il revisionismo storico rischia di diventare un’arma ideologica, questa posizione appare tanto coraggiosa quanto necessaria. L’amore per il proprio Paese - ci ricorda - non è cieca esaltazione, ma volontà di verità. È desiderio di miglioramento, non di autoassoluzione. Nel cuore della sua narrazione, pulsa un’idea tanto antica quanto disattesa: quella di civitas. "Abbiamo creato nuovi cittadini'' dice Burns. ''E questa è una cosa importante''.

Non consumatori, non spettatori, ma esseri morali chiamati a esercitare il pensiero critico, l’empatia, la cura reciproca. In quest’ottica, la Rivoluzione americana non è solo un evento passato: è un interrogativo costante rivolto al presente. La felicità, allora, non è un bene di consumo, ma "un apprendimento continuo in un mercato di idee''. Perché la libertà, per Burns, non è mai separata dall’autodisciplina, dalla responsabilità, dall’ascolto.

"Dobbiamo rimettere gli Stati Uniti negli Stati Uniti'', afferma con una semplicità disarmante e profonda.
Un monito che trascende i confini degli oceani e si rivolge all’intera umanità, sempre più lacerata da polarizzazioni sterili e da una profonda incapacità di ascolto e confronto. Conoscere la storia - la nostra, quella degli altri, quella di tutti - non è mai stato così necessario: è un atto politico, etico, poetico. Perché, come ricordava Cicerone, la storia è maestra di vita. E oggi, più che mai, abbiamo bisogno della sua voce, dei suoi insegnamenti, della sua memoria.

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