Nel grande libro dello sport italiano si chiude oggi una delle pagine più luminose: quella scritta con il sudore, la classe e il coraggio di Nino Benvenuti. A 87 anni, il campione dei campioni ha lasciato il ring della vita, tra gli applausi silenziosi di una nazione che lo ha amato e, forse, mai del tutto capito.
Addio a Nino Benvenuti, pugile gentiluomo
Nato Giovanni, ma divenuto per tutti Nino, vide la luce il 26 aprile del 1938 a Isola d’Istria, terra scossa dalle turbolenze geopolitiche del dopoguerra e poi strappata all’Italia per finire nel lembo orientale della memoria. Fu esule, profugo, figlio di un’epoca in fuga da sé stessa. Trasferitosi a Trieste, incrociò i guantoni a 13 anni in una palestra che odorava di segatura e sudore, e fu lì che il destino decise di allenarsi con lui. La leggenda prende il via quando, dopo una trafila di tornei e trionfi, approda in Nazionale nel 1955: immacolato, invincibile, finché non cade per la prima volta in Turchia, come a dire che anche gli eroi hanno bisogno di conoscere la sconfitta per riconoscere la gloria.
E la gloria arrivò, eccome se arrivò: agli Europei di Praga nel ’57, poi di nuovo nel ’59, ma è il 1960 l’anno in cui la favola diventa epica. Alle Olimpiadi di Roma, l’oro brilla al collo di Benvenuti nei pesi welter, ma ciò che impressiona è la conquista della coppa Val Barker, destinata al pugile tecnicamente più raffinato del torneo, preferito perfino a un certo Cassius Clay. Come dire: Nino non solo vinceva, ma lo faceva con stile. Il passaggio al professionismo, nel 1961, fu un’evoluzione naturale. In 29 incontri consecutivi lasciò solo polvere agli avversari, e al trentesimo salì sul trono nazionale dei pesi medi, detronizzando l’amico Tommaso Truppi per KO. Gli anni Sessanta furono il suo palcoscenico dorato, tra rivalità infuocate e guantoni che parlavano con eloquenza.
In particolare quella con Sandro Mazzinghi: più che un duello sportivo, un feuilleton italiano, fatto di orgoglio, ruggini e colpi sotto la cintura verbale. Si odiarono a lungo, si rispettarono tardi, si telefonarono infine nel 2018, quando la vita suggerì di disarmarsi. In Germania sconfisse Jupp Elze, in Corea duellò con Kim, che gli strappò il titolo superwelter in circostanze giudicate discutibili – ma tant’è, anche gli eroi si sporcano col fango degli arbitraggi. Fu l’America, però, a consacrarlo davvero. Nel 1967, a New York, affrontò Emile Griffith per la cintura mondiale dei pesi medi: vinse, convinse e incantò. Una vittoria che valicò i confini del pugilato, trasformandolo in simbolo nazionale.
In poco tempo, Nino divenne il primo italiano a conquistare le cinture WBC e WBA, e Griffith il primo avversario ad entrare nel suo cuore. La trilogia tra i due – 1967, 1968, 1969 – fu degna delle grandi rivalità classiche: equilibrio, fratture (letteralmente, visto il colpo alle costole che subì nella seconda sfida), ma anche rispetto, affetto, umanità. Griffith divenne amico, confidente, persino padrino di cresima del figlio Giuliano. E quando gli confessò la propria omosessualità, Benvenuti lo difese con l’eleganza che lo distingueva sul ring e fuori. “Lui è sempre stato un uomo vero,” disse.
Ma ogni leggenda ha il suo tramonto, e per Nino prese la forma del pugno ferale di Carlos Monzón, argentino dai pugni pesanti come verità spiacevoli. A Roma prima, a Montecarlo poi, Benvenuti conobbe la sconfitta definitiva. E fu un congedo degno: nobile, lucido, consapevole. Il suo manager gettò la spugna nella terza ripresa per proteggerlo, e Nino uscì dal ring come aveva sempre vissuto: da gentiluomo. “Meglio perdere che barare con la vita,” sembrava dire. Nel bilancio finale: 90 incontri, 82 vittorie (35 per KO), un pareggio, sette sconfitte. Ma, più ancora dei numeri, a restare sono lo stile, la grazia, l’intelligenza tattica e quel sorriso malinconico da attore neorealista. Dopo il ring recitò in film, commentò match, divenne volto televisivo e figura istituzionale. Nel 2006 fu portabandiera a Torino. Poi, nel 2018 affrontò un’operazione e ne uscì con una frase degna della sua epica: “Ci vuole ben altro per mettermi al KO”.