Economia

Il Rapporto Istat 2025 è una fotografia a tutto campo di un Paese in transizione: tra stagnazione e resilienza

di Luca Andrea
 
Il Rapporto Istat 2025 è una fotografia a tutto campo di un Paese in transizione: tra stagnazione e resilienza
L’Istat presenta domani a Montecitorio il Rapporto Annuale 2025, che, giunto alla sua trentatreesima edizione, si conferma una delle più autorevoli chiavi di lettura della realtà economica, demografica e sociale italiana. L’analisi restituisce l’immagine di un Paese in lenta ripresa, ma ancora stretto tra fragilità strutturali, disparità territoriali e squilibri generazionali, nonostante segnali di resilienza diffusa. Nel 2024 il PIL italiano è cresciuto dello 0,7%, in linea con l’anno precedente, ma sotto le performance di Francia (1,2%) e Spagna (3,2%), mentre la Germania è rimasta in contrazione (-0,2%). La domanda interna si è rivelata debole, con consumi delle famiglie in crescita dello 0,4%, pur a fronte di un recupero del potere d’acquisto (+1,3%). Gli investimenti fissi hanno rallentato drasticamente: +0,5% rispetto al +9% del 2023, frenati dalla riduzione del Superbonus e dalla cautela sulle spese in macchinari.

Sul fronte del lavoro, invece, l’Italia ha registrato risultati incoraggianti: 23,9 milioni gli occupati a fine 2024 (+1,5%), con un incremento marcato dei contratti a tempo indeterminato. Tuttavia, persistono criticità strutturali: il tasso di occupazione (62,2%) resta il più basso d’Europa, con ampi divari di genere (17,8 punti) e territoriali (20,4 punti tra Nord e Sud). Il 2024 ha segnato un deciso miglioramento dei conti pubblici: il saldo primario è tornato positivo (+0,4% del PIL) per la prima volta dal 2019, e l’indebitamento netto è sceso al 3,4%. La pressione fiscale è aumentata di oltre un punto (42,6% del PIL), anche grazie al ridimensionamento delle spese per bonus edilizi. Tuttavia, il rapporto debito/PIL è tornato a salire (135,3%), zavorrato da una crescita nominale debole e maggiori spese per interessi.

Il Rapporto evidenzia come la scarsa dinamica della produttività sia uno dei principali nodi strutturali: nel 2024, la produttività per occupato è scesa dello 0,9%, quella per ora lavorata dell’1,4%. Nonostante una crescita del valore aggiunto nei settori ad alta tecnologia, il peso delle risorse umane scientifiche e tecnologiche rimane basso: circa il 40%, contro il 50% della Germania e il 57% della Francia. L’Italia ha fatto registrare una riduzione importante nei consumi energetici (-23,1%), nelle emissioni climalteranti (-32%) e nel consumo materiale interno (-40%) rispetto al 2008, ma in parte a causa della deindustrializzazione. La produzione da rinnovabili è triplicata in vent’anni, arrivando al 41,2% della domanda elettrica, ma il confronto con i partner europei resta impietoso: la Germania produce quasi tre volte tanto. Inoltre, il 18,2% del valore aggiunto è generato in aree ad alto rischio idrogeologico o sismico.

La popolazione residente è scesa sotto i 59 milioni, con la natalità ai minimi storici (1,18 figli per donna) e 370.000 nuove nascite nel 2024. Il saldo migratorio non è sufficiente a compensare il declino. Preoccupa la fuga di capitale umano: oltre 21.000 laureati tra 25 e 34 anni hanno lasciato il Paese nel solo 2023, con un saldo negativo di 97.000 giovani in dieci anni. La speranza di vita torna a crescere (83,4 anni), ma quella in buona salute resta bassa, soprattutto per le donne (56,6 anni). Inoltre, il 9,9% della popolazione rinuncia alle cure, con un ricorso crescente al settore privato (23,9%).

La povertà assoluta colpisce 2,2 milioni di famiglie (8,4%), con picchi tra i minori (13,8%), i giovani e gli stranieri. Il livello di istruzione resta un fattore discriminante: solo un terzo degli adulti ha un diploma, uno su cinque è laureato. Le competenze digitali sono ancora carenti: meno della metà degli adulti ha abilità di base, contro il 55,5% della media UE. I giovani italiani sono oggi più istruiti che mai, ma le opportunità restano limitate. Il 29,5% dei giovani sotto i 35 anni lavora con un reddito basso, il 46,6% dei contratti a termine appartiene a questa fascia. L’analisi sulla coorte dei nati nel 1992 evidenzia una mobilità sociale ridotta: l’origine familiare continua a influenzare fortemente gli esiti formativi e professionali.

Il Rapporto Istat 2025 restituisce il quadro di un Paese che, nonostante il consolidamento post-pandemia e l’espansione dell’occupazione, fatica a generare sviluppo inclusivo e sostenibile. Il capitale umano delle nuove generazioni è un’opportunità ancora troppo poco valorizzata. La trasformazione digitale, l’innovazione produttiva e la riduzione dei divari sociali e territoriali sono i cardini per uscire dallo stallo. Serve un progetto-paese che investa su competenze, equità e resilienza. Il tempo stringe.
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