Attualità

Il naufragio dell’autorità genitoriale nel tempo della complicità codarda

Barbara Leone
 
Il naufragio dell’autorità genitoriale nel tempo della complicità codarda

Se la cronaca fosse il biglietto da visita dell’umanità, un marziano atterrato oggi sulla Terra fuggirebbe a gambe levate. E avrebbe ragione. Osservando il mondo giovanile attraverso lenti mediatiche, sociali e familiari, troverebbe una gioventù sbandata, iperstimolata e cronicamente priva di riferimenti adulti credibili. Ma la vera distopia non è tanto nei ragazzi - disorientati, fragili, a tratti violenti - quanto negli adulti che, anziché educare, ammiccano. Siamo a un punto di disfacimento etico e relazionale in cui le feste tra adolescenti si consumano a colpi di alcol e spinelli, con i genitori nell’altra stanza.

Il naufragio dell’autorità genitoriale nel tempo della complicità codarda

Non a vigilare, ma a tacere. O, peggio ancora, a fare di peggio. È il trionfo dell’inerzia morale, del permissivismo travestito da modernità, dell’amicizia scambiata per genitorialità. La generazione adulta è così impegnata a rincorrere il tempo, a "fare" invece che a "essere", da essersi dimenticata che educare è verbo dell’anima prima ancora che del metodo. Si lavora incessantemente, si corre dietro a una produttività tossica e si delega l'educazione ai dispositivi elettronici, alle piattaforme, agli algoritmi. Poi, un giorno, ci si sveglia - come il padre di Jamie nella serie “Adolescence”, un vero pugno nello stomaco - e ci si rende conto, con terrore, che del proprio figlio non si sa più nulla. Nulla.

Ma c’è chi, con coraggio e un’ironia tagliente come una lama affilata, denuncia tutto questo. La voce fuori dal coro è quella di Roberta Bruzzone, psicologa, criminologa, e probabilmente una delle poche figure pubbliche disposte a mettere il dito nella piaga senza ricorrere a ipocrisie pedagogiche. La sua invettiva è chiara, potente, necessaria: “Vi leverei i figli. Non siete in grado di fare i genitori se pensate che un bambino di 12 anni abbia diritto alla privacy”. Non è una provocazione da talk show.

È l’amara constatazione di una realtà capovolta, dove il genitore abdica alla sua funzione e si rifugia nel ruolo di amico, complicando irrimediabilmente i ruoli e creando un cortocircuito affettivo e normativo. “Controllare un figlio è parte dei tuoi doveri”, continua Bruzzone. Un dovere, non un'ingerenza. Un atto d'amore, non di repressione. Ma nella cultura del consenso e dell’ansia da approvazione, è diventato quasi volgare esercitare autorevolezza. I genitori di oggi temono più il giudizio del figlio che il suo smarrimento.

“Siete genitori, non abbiate paura del ruolo”, ammonisce ancora la criminologa. E come darle torto? Nell’epoca della simmetria forzata, in cui tutto dev’essere paritario, anche l’educazione è diventata un contratto tra uguali. Ma l’amicizia, come ricorda la Bruzzone, è un rapporto simmetrico, mentre quello tra genitori e figli non lo sarà mai. L’educazione è per sua natura asimmetrica, un atto di responsabilità e di visione, non una contrattazione affettiva.

Il dibattito che ne è scaturito sul web è lo specchio di una società spaccata. Da una parte chi applaude alla restaurazione del buon senso, dall’altra chi teme derive autoritarie. Ma ridurre tutto alla dicotomia controllo/libertà è l’ennesimo fraintendimento. Il vero tema non è se leggere o meno il cellulare di un dodicenne, ma se si è disposti a esserci, a sostenere, a dire no quando serve. Una madre scrive: “Il controllo ci deve essere, se fatto con intelligenza, ma prima ancora ci deve essere presenza, dialogo e la sicurezza, da parte del figlio, che mamma e papà sono sempre un porto sicuro”. Ecco, forse è qui il nocciolo: si può anche parlare di limiti invece che di controlli, ma quei limiti devono esistere. Altrimenti tutto diventa arbitrio. Un altro commento centra il punto: “Autorità e disciplina non sono violenza. L’amicizia le condiziona in modo negativo. Genitore è altro”. Eppure il bisogno disperato di essere accettati dai propri figli ha trasformato troppi adulti in caricature di sé stessi: presenti su TikTok, assenti nel dialogo; puntuali alle recite scolastiche, evanescenti nei momenti di crisi.

La verità - ruvida, scomoda ma ineluttabile - è che educare fa male. Ma non educare fa peggio. Occorre riprendersi la fierezza e la fatica del ruolo genitoriale. Smarcarsi dalla tentazione di piacere, per tornare a guidare. Basta con la retorica del “voglio essere suo amico”: i figli non hanno bisogno di amici, hanno bisogno di madri e padri. E se per farlo serve una patente, come ironizza la Bruzzone, allora ben venga.

Perché quando la trascuratezza affettiva si maschera da libertà e il silenzio da rispetto, si crea il terreno perfetto per l’abisso. I figli non si perdono per una sbandata, ma per una lunga sequenza di “non ho tempo”, “non voglio essere invadente”, “tanto non serve”. Abbiamo bisogno di adulti veri. Di adulti che non arretrino. Che non stiano nell’altra stanza a far finta di nulla, mentre i figli annegano in un bicchiere o in una canna. Non basta più indignarsi. È ora di educare. Con fermezza, amore e coraggio. Altrimenti i figli, così come i marziani, scapperanno. E avranno tutte le ragioni per farlo.

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