Politica

Congedi per lutto e malattia di cani e gatti: la proposta arriva in Parlamento

Barbara Leone
 
Congedi per lutto e malattia di cani e gatti: la proposta arriva in Parlamento

Sappiamo che molti storceranno il naso. Ma altrettanti, magari senza dirlo ad alta voce, penseranno: finalmente. Perché c’è una verità che milioni di persone conoscono intimamente, anche se ancora stenta a trovare spazio nella nostra legislazione: un cane o un gatto non sono solo animali. Sono presenze quotidiane, affetti profondi, familiari a tutti gli effetti. E quando stanno male, la loro sofferenza diventa anche la nostra. Quando muoiono, il vuoto che lasciano non è solo emotivo: è fisico, quotidiano, devastante.

Congedi per lutto e malattia di cani e gatti: la proposta arriva in Parlamento

È l’assenza improvvisa di una routine fatta di sguardi, abitudini, carezze. È un lutto vero, e lo è in ogni senso. È per questo che la proposta di legge presentata dal deputato di Alleanza Verdi e Sinistra, Devis Dori, potrebbe rappresentare una svolta culturale prima ancora che normativa: tre giorni di permesso retribuito in caso di decesso, e otto ore annuali per curare un cane o un gatto malato. Una piccola misura che ha, però, un valore simbolico enorme: riconoscere che il dolore, la preoccupazione, l’affetto legati agli animali domestici meritano rispetto e tutela, anche nel mondo del lavoro. Ovviamente non sono mancate le polemiche.

C’è chi parla di proposta inutile, chi la bolla come una stramberia ideologica, chi la ridicolizza con la solita ironia da bar: “E allora chi ha un bonsai?” o, ancora peggio, chi tira fuori l’immancabile retorica del dolore universale: “Con tutti i bambini che muoiono di fame nel mondo, pensate ai cani?”, come se un’ora di permesso retribuito per portare il proprio animale dal veterinario potesse risolvere la guerra in Ucraina, salvare i bambini di Gaza, aggiustare il PIL o riformare la sanità.

Come se chiedere dignità per un legame affettivo reale fosse una colpa da espiare davanti al tribunale dell’indignazione selettiva. Ma le risposte ci sono, e sono molto più solide di quanto certi commentatori improvvisati vogliano far credere.

Innanzitutto una precisazione d’obbligo: perché la proposta riguarda solo cani e gatti, e non anche conigli, pappagalli o criceti? Non certo perché questi animali contino meno o siano incapaci di instaurare legami affettivi profondi. E chi vive con loro sa bene quanto possano essere parte integrante della famiglia. La scelta è di natura puramente tecnica: cani e gatti, a differenza di altri animali domestici, sono registrati con microchip e iscritti all’anagrafe degli animali d’affezione, rendendo tracciabile in modo oggettivo il rapporto tra il proprietario e l’animale. Una questione di verifica, quindi, e non di sentimento.

E poi c’è la questione pratica. Chi ha mai provato a conciliare un ciclo di terapie veterinarie con orari di lavoro rigidi, sa bene quanto sia difficile. Una visita, un’iniezione da fare a casa, un post-operatorio da seguire minuto per minuto: tutto questo spesso si traduce in giorni rubati alle ferie, ore sottratte al sonno, corse contro il tempo per tornare a casa in pausa pranzo e dare una medicina. Eppure tutto questo, oggi, è invisibile agli occhi della legge.

Nessuna tutela, nessun riconoscimento. Si dà per scontato che, se il tuo cane ha una crisi epilettica o il tuo gatto sta facendo la chemioterapia, tu debba semplicemente “organizzarti”. Ma con chi? Con cosa? C'è poi il capitolo, gigantesco, dei costi. Chi ha un animale malato conosce fin troppo bene il salasso economico che accompagna ogni terapia. Un’assurdità su tutte? Il prezzo dei farmaci veterinari. Stessi principi attivi di quelli umani, ma con costi anche cinque volte superiori.

Una compressa di cortisone, un antibiotico o un banale gastroprotettore: cambia solo il destinatario sull’etichetta. Ma per il cane o il gatto paghi molto di più. Una ingiustizia tanto evidente quanto sistematicamente ignorata. E quando, purtroppo, arriva il momento dell’addio, nessuno spazio è concesso al dolore. Ad oggi, se perdi il tuo cane o il tuo gatto, non hai diritto neanche a un giorno di permesso. Eppure la comunità scientifica è chiara: il lutto per la perdita di un animale domestico è reale, tangibile, e può avere conseguenze profonde sulla salute mentale. Studi recenti pubblicati tra il 2023 e il 2024, ad esempio su Frontiers in Psychology e Journal of Mental Health, confermano che l’elaborazione del dolore può durare mesi ed in modo del tutto simile a quello che accade dopo la morte di una persona cara. E non serve un manuale di psichiatria per capirlo: basta averlo vissuto.

Certo: la proposta di Dori non si sovrappone alla legge Brambilla, già in vigore, che ha fatto importanti passi avanti in materia di tutela animale, riconoscendo agli animali lo status di “esseri senzienti” e inasprendo le pene per maltrattamenti e abbandoni. Ma quello era – giustamente – un intervento sulla protezione degli animali. Qui il punto è un altro: tutelare le persone. Tutelare chi soffre, chi ama, chi cura. Chi considera l’animale non un oggetto da compagnia, ma un essere vivente con cui condivide una parte della propria vita. E non è una questione di schieramenti. Se la proposta viene da un esponente della sinistra, è anche vero che Michela Vittoria Brambilla – oggi in “Noi Moderati”, con un passato in Forza Italia – è da sempre in prima linea nella difesa degli animali. E ha firmato leggi fondamentali per rafforzare le pene contro i reati a loro danno. Questo dovrebbe dirci che, almeno su questo tema, un dialogo trasversale è possibile. Anzi, doveroso. Resta da superare, come sempre, la barriera più difficile: quella del pregiudizio. Quella smorfia di disprezzo, quella battuta saccente, quel “ci sono cose più importanti”.

Come se l’amore avesse una classifica. Come se il dolore avesse un valore solo quando rientra nei codici già approvati, nelle convenzioni sociali. Come se prendersi cura di chi dipende da noi – e poi affrontarne l’assenza – fosse una sciocchezza da sentimentali. No, non è una sciocchezza. È realtà. Quotidiana, intensa, spesso dolorosa. È il cane che ci aspetta ogni sera dietro la porta.

È il gatto che ci segue silenzioso in ogni stanza. È l’ansia che ci stringe lo stomaco quando stanno male, la notte passata sul pavimento della cucina accanto a loro, la carezza finale che non ci si scorderà mai. E riconoscere tutto questo in una legge non significa ridicolizzare i diritti umani. Significa, al contrario, ampliare la sfera della compassione e della giustizia. Sì, qualcuno continuerà a storcere il naso. Ma noi che abbiamo amato, curato, e pianto per un animale, sappiamo che non c’è nulla di ridicolo in tutto questo. C’è solo tanto, tantissimo, amore. E per una volta, finalmente, anche un po’ di civiltà.

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