Cultura

Gassman, Gallarate e la memoria calpestata

Barbara Leone
 
Gassman, Gallarate e la memoria calpestata

In un’Italia che barcolla sempre più spesso sul crinale scivoloso della rimozione storica, serviva il coraggio ruvido e netto di Alessandro Gassman per dire l’ovvio. Serviva che un figlio si alzasse in piedi a difendere la dignità del padre, non per nostalgia, ma per civiltà con una presa di posizione arrivata dopo due giorni dal Remigration Summit, svoltosi sabato proprio nel teatro intitolato a suo padre Vittorio, uno dei giganti della cultura italiana del Novecento.

Gassman, Gallarate e la memoria calpestata

Un raduno internazionale della destra estrema, che tra una stretta di mano e un selfie col tricolore, inneggia a ideologie inquietanti che pretendono di spacciarsi per dibattito democratico. E invece sono veleno ben confezionato. In quell’edificio che dovrebbe risuonare della grandezza del “Mattatore”, sono echeggiate invece parole di disprezzo verso chi non ha la pelle giusta, l’origine giusta, i “valori” giusti. Parole che parlano di espulsione, di remigrazione, di “stranieri non assimilati”, con un lessico degno dei fantasmi peggiori del Novecento. È lì, in quel teatro di nome Gassman, che il presente ha sputato sulla memoria. Alessandro Gassman non ha lasciato correre.

“Caro Sindaco – ha scritto - leggo che nel teatro intitolato a mio padre nella vostra cittadina ieri è avvenuta la riunione internazionale dei partiti di estrema destra europei (neo fascisti e nazisti). Se nelle sue intenzioni vi è quella di continuare a ospitare, in un luogo di cultura, manifestazioni con slogan razzisti e illiberali, le chiedo di togliere il nome di mio padre al suddetto teatro. Mio padre ebbe parenti deportati e uccisi dai nazifascisti. Grazie”.

Immediata la replica del sindaco leghista Andrea Cassani, che ha pensato bene di rispondere con una scrollata di spalle: “Vittorio Gassman, uomo di cultura eclettico, non ebbe mai paura di esternare la propria appartenenza politica e come tutte le persone di valore, che hanno fatto la storia del nostro Paese, probabilmente non avrebbe combattuto con la censura aprioristica le idee altrui ma con la forza di idee più convincenti”. Una risposta imbarazzante, tipica di quella retorica cerchiobottista che pretende di dare pari legittimità alla democrazia e a chi la nega.

Ma l’Italia, e questa è la parte più amara, sembra ormai abituata a questa convivenza tossica. Da tempo il confine tra memoria e nostalgia è stato ridotto in polvere. Il fascismo non fa più paura, viene blandito, normalizzato, impacchettato in convegni che parlano di “identità” e “sovranità” ma sanno di rancore etnico e pulsioni autoritarie. E il fatto che tutto questo avvenga in un teatro intitolato a un uomo che ha fatto della cultura un atto di resistenza morale rende tutto ancora più grottesco.

Per Vittorio Gassman il nazifascismo non era una pagina sui libri: era sangue versato, era persecuzione. Era un nemico reale, non un’opzione da talk show. E chi oggi gioca con certe fiamme, chi le ospita, chi le legittima in nome di un pluralismo malinteso, sta facendo un’operazione profondamente immorale: equiparare la cultura al fango, la libertà alla prevaricazione. Ecco perché nel gesto di Alessandro c’è molto più che indignazione filiale. C’è un grido civile che ci riguarda tutti. In un Paese ancora capace di vergogna, non sarebbe stato lui a dover intervenire.

Non avremmo avuto bisogno di un tweet per accorgerci dell’assurdità di un teatro della cultura che si piega a ospitare chi predica l’esclusione e la paura. In un Paese sano, il solo accenno a un summit neofascista in un luogo pubblico avrebbe sollevato le barricate delle coscienze. Invece niente. Silenzio. E poi la solita replica paternalistica del politico che, invece di chiedere scusa, spiega la libertà a chi quella libertà l’ha pagata sulla pelle dei propri cari. La verità è che si tollera l’intollerabile.

La verità è che c’è una stanchezza diffusa, una rassegnazione pericolosa, nella risposta pubblica a questo episodio. Eppure ci si dovrebbe indignare. Perché questo è l’ennesimo capitolo della demolizione sistematica della memoria. I padri costituenti, i partigiani, gli intellettuali del dopoguerra, quelli che dopo la barbarie tentarono di costruire un’Italia nuova, oggi vengono commemorati a intermittenza, solo quando non disturbano. “Me ne frego” Vittorio Gassman non l’avrebbe affatto detto.

Perché era un uomo pensante, coltissimo, visceralmente legato alla parola, alla scena, alla complessità dell’essere umano. E non avrebbe mai tollerato che il suo nome fosse brandito sopra un palco in cui si disonora tutto ciò per cui ha vissuto. Il teatro di Gallarate è solo l’ultimo esempio di un degrado culturale in pieno corso, con l’arte e la cultura declassate a contenitore, con il ricordo che diventa decorazione e la verità storica materia da dibattito revisionista. Non è più solo questione di destra o sinistra: è una questione di decenza.

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