Un video girato in quello che sembra essere uno studio medico. Due donne - si saprà dopo che sono una dottoressa ed una infermiera - riprese mentre gettano in un cestino per la spazzatura delle confezioni di farmaci, prodotte da una azienda israeliana, dicendo che è il loro modo di protestare contro quel che accade a Gaza City.
Giusto indignarsi per Gaza, ma sbagliato il modo di protestare
Il video, girato in Toscana, in una struttura sanitaria pubblica, ha scatenato reazioni, soprattutto contrarie da parte di chi ha gridato allo scandalo nel vedere farmaci gettati via, quando invece avrebbero potuto e dovuto essere somministrati a chi ne aveva bisogno.
Travolte dalle proteste, le due protagoniste del video, poche ore dopo la sua pubblicazione sui social, hanno fatto ammenda: ''Questo video è per chiedere scusa da parte nostra per tutte le persone che si sono sentite offese. Il nostro era un gesto simbolico volto alla pace. Non volevamo offendere nessuno, né coinvolgere l’azienda''', ha detto la dottoressa, parlando anche a nome dell'infermiera.
Caso rientrato, quindi?
No, affatto, e per più ordini di considerazioni.
La prima, più banale, è che mai si dovrebbero buttare farmaci perché a qualcuno possono certamente essere utili. Il gesto di dottoressa e infermiera era chiaramente simbolico, quindi logica vuole che, finito il video, le scatole di farmaci siano state recuperate e messe di nuovo a disposizione dei pazienti.
Ma quel gesto è stato il tentativo di spettacolarizzare la protesta, nel rispetto delle leggi della comunicazione, e anche del giornalismo, che dicono che a colpire, destando attenzione, sono i ''cattivi ragazzi'', perché i buoni, in fondo, stanno in antipatia al lettore/spettatore medio.
Ma a reggere il dibattito su questa vicenda è che le buone intenzioni - dirsi concretamente accanto alle sofferenze di un popolo, che sta pagando responsabilità che ricadono solo su una minoranza, in armi - sono state sepolte dalla supponenza che basti apparire per diventare credibili. Fosse anche vero, ci sono dei limiti che devono essere considerati, come quello di prestare grande attenzione a dove si ambientano i video di protesta, come questo, perché la gente potrebbe essere ingannata in merito alla condivisione del messaggio.
Insomma, puoi protestare, e ne hai tutto il diritto, ma non puoi farlo dentro una struttura pubblica - peraltro votata a garantire la salute - eletta a palcoscenico, senza che i responsabili ne siano a conoscenza o ne vengano a conoscenza dopo, quando le proteste si sono levate alte, spesso con toni anche troppo accesi, vista la relativa importanza della cosa.
Il fatto è che ormai i social sono diventati una valvola di sfogo dell'umana presunzione d'essere tutti protagonisti, che la solo circostanza di apparire in un video - di cui si auspica la diffusione - regali una statura morale o un rango nella società diversi e migliori della realtà.
In un mondo virtuale, come quello dei social, ciascuno, nascondendosi dietro la coltre ingannevole della mancanza di controlli e di regolatori, ritiene di potersi ergere a giudice e a dispensatore di verità. E questo, nella stragrande maggioranza dei casi, non è vero. Perché contabilizzare il numero di chi ha visto un video non significa che esso sia stato condiviso o apprezzato.