Attualità

Fuck, pardon: manuale semiserio per imprecare con grazia

Barbara Leone
 
Fuck, pardon: manuale semiserio per imprecare con grazia

Altro che poesia, altro che Dante e Petrarca: oggi l’identità culturale si misura a colpi di “fuck”, “wtf” e “4rsehole”. Anzi. Se Shakespeare risorgesse, aggiornerebbe l’Amleto in: “To be or not to be, that is the fcking question”.
Tradotto: essere o non essere, questo è il fottuto dilemma.

Fuck, pardon: manuale semiserio per imprecare con grazia

Insomma: benvenuti nell’era della parolaccia 2.0: non più scarto linguistico da reprimere sotto il tappeto morale della buona educazione, ma nobile veicolo di espressività, affetto e — perché no? — liberazione emotiva.
Non lo diciamo noi, poveri cronisti dell’osceno quotidiano, ma una raffinatissima analisi linguistica ripresa dalla CNN, che ha passato al setaccio oltre 1,7 miliardi di parole in 20 regioni anglofone. E no, non nei bar di periferia o nei cessi degli stadi: parliamo di blog, testate, siti istituzionali. Un vero e proprio grand tour della bestemmia sofisticata.

La ricerca parte da un granitico assunto: il nostro cervello ama le parolacce. Le produce con passione, le serve bollenti per calmare l’ira, per costruire complicità, per dire “sono incazzato” senza dover spiegare il perché. L’imprecazione — se ben calibrata — è come un colpo di violino in una sinfonia rock: imprevedibile, elettrica, necessaria.

E mentre gli australiani si beavano della loro fama di sboccati senza filtro, la scienza è arrivata a rovinare la festa con dati impietosi: sono gli americani i veri campioni mondiali di parolaccia, seguiti dai britannici.
Gli aussie? Solo medaglia di bronzo, ma con una menzione d’onore per la creatività ortografica. Perché se proprio non puoi dire “asshole” (fatevi tradurre da google), un geniale “4rsehole” ti salva la reputazione e ti garantisce il rispetto dell’algoritmo.

E però, con ben 201 varianti censite, la Gioconda del turpiloquio resta sempre lui: il termine “fuck”, l’Einstein del vocabolario scurrile.
Quello, per intenderci, sul quale in Italia è finanche nato un movimento politico. E che può essere verbo, aggettivo, sostantivo, intercalare, esclamazione, punto fermo e pure virgola. In pratica, può fare tutto tranne pagare le tasse.

Che tu sia uno yankee represso dal puritanesimo, un britannico in trench, o un australiano con la birra calda e il cuore in fiamme mentre canta ''Waltzing Matilda'', c’è sempre un modo fuckingly efficace per esprimere la tua verità interiore. E, paradosso dei paradossi: nel Paese dove il moralismo religioso ancora detta legge, il turpiloquio online esplode. Sarà che l’anonimato è una mano santa (si fa per dire), sarà che il bisogno di esprimersi supera le barriere del decoro. Sta di fatto che anche “damn” — tradotto: dannazione, parola che in altri contesti suona come un lamento da monache ottuagenarie — negli USA è l’equivalente di una molotov lessicale.

Ma attenzione: se volete offendere davvero un americano, non usate “cunt” (google translation, pensaci tu). Troppo british, troppo teatrale. Meglio restare nell’alveo familiare e ruggire col caro vecchio “asshole”, magari camuffandolo in “a$$h*le”, ché l’estetica conta pure nella rabbia.

Su tutto, però, resta il grande mistero australiano: popolo notoriamente affezionato all’insulto amichevole, online sembra trattenersi con una sobrietà quasi sconcertante. Forse è la mancanza di vocali in “fuck” che li deprime, o forse, semplicemente, a differenza degli americani, gli aussie preferiscono insultarti in faccia. Con amore, ovviamente.

Del resto, in Australia si può tranquillamente vedere uno spot istituzionale che recita: “If you drink and drive, you’re a bloody idiot”. Prova tu a immaginare lo stesso slogan approvato da un Ministero italiano: rischio insurrezione parlamentare e crisi diplomatica col Vaticano.

E mentre ci si aspetterebbe rigore linguistico da una città-Stato famosa per proibire anche le chewing gum, Singapore sorprende tutti con un’ondata giovanile che impreca a mo’ di resistenza civile.
Altro che “Good morning”: per un ventenne locale, aprire bocca con un “fuck this” è un atto politico. Un manifesto. Una dichiarazione d’identità.

Ma se pensate che i madrelingua inglesi siano volgari, sappiate che i non anglofoni lo sono solo per difetto didattico. Sì, perché nessuno ti insegna a dire “fuck off” al corso di Cambridge livello B2.
Al massimo ti preparano a ordinare un cappuccino con cortese formalità, non certo a mandare affettuosamente a quel paese un tassista che ti ruba il parcheggio. Eppure, proprio lì si misura la vera padronanza della lingua: nella sfumatura tra un “screw you” e un “bugger off”, tra la furia e il sarcasmo, tra la rassegnazione e la sfida.

Insomma: lunga vita alla parolaccia, purché detta con classe. Perché, lo dicono sempre gli studiosi americani, imprecare non è un vizio da estirpare, ma una facoltà umana da comprendere, cesellare, magari persino insegnare con grazia. In fondo non hanno tutti i torti, perché una parolaccia assestata bene vale più di mille giri di parole. Purché abbia ritmo, contesto, e una buona dose di ironia.
Della serie: quando ci vuole ci vuole!
O, come direbbe forse Oscar Wilde se vivesse nel 2025: “Si può resistere a tutto, tranne alla tentazione di mandare qualcuno affanculo”. Con eleganza, ça va sans dire”.

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