Viviamo ormai in un’epoca talmente assurda che persino l’ovvio ha bisogno di un cartello. E alla Scala, tempio austero dell’armonia e della civiltà musicale, il cartello è finalmente arrivato. Reca un messaggio tanto semplice quanto, a quanto pare, rivoluzionario: “Alla Scala non si entra in canotta e infradito.” Tradotto: l’evidente va esplicitato, l’ovvio va verbalizzato, e la decenza – ormai ridotta a valore esoterico – va affissa accanto all’uscita di sicurezza.
Eleganza cercasi (anche d’estate): alla Scala arriva il cartello dell’ovvietà
Si dà il caso, infatti, che servisse una nota ufficiale della Direzione del teatro più celebre d’Italia (e uno dei più ossequiosi d’Europa) per ricordare che presentarsi a vedere la Tosca come se si andasse a prendere un mojito al chiringuito non è propriamente consono (e uso questo termine con la deferenza di chi sa di trovarsi ormai in minoranza). La Scala, lo diciamo per chi fosse più avvezzo al lido che al loggione, è quel luogo mitologico in cui ancora si osa pensare che l’abito non faccia il monaco, ma almeno il melomane sì. O, per lo meno, l’essere umano civilizzato.
La notizia è che da oggi questo principio di base della convivenza teatrale verrà esposto a chiare lettere all’ingresso del teatro e in biglietteria, così da evitare fraintendimenti tra chi cerca i preludi wagneriani e chi, in realtà, pensava di essere sulla via per il Carrefour express. Che poi, non si chiede lo smoking da tenore né l’abito da soirée con strascico e guanti di seta: sarebbe troppo, lo capiamo. Molto semplicemente l'istituzione meneghina invita il pubblico a un gesto di minima dignità sartoriale: niente abbigliamento balneare, niente look da turista disorientato sbarcato per errore a Bayreuth. E c’è perfino spazio per una concessione all’ambiguità semantica: una blusa senza maniche non è una canottiera, una geta giapponese non è una flip-flop da campeggio.
La direzione distingue, analizza, soppesa: il confine tra scivolone modaiolo e delitto estetico è sottile ma tracciabile. Se solo i filosofi della modernità fossero altrettanto lucidi. Chi infrangerà queste regole di buonsenso, ci dicono, potrà essere gentilmente respinto all’ingresso, senza diritto al rimborso. In altre parole: se ti presenti a vedere La Traviata vestito da bagnante, non aspettarti che ti rimborsino il biglietto, né che Verdi approvi la tua mise dal regno dei cieli.
Perchè a teatro, ci ricorda la Scala (e per fortuna qualcuno lo fa ancora), non è esattamente come andare a rimestare negli scaffali di Zara né a cercare l’aria condizionata nel centro commerciale. È un rito laico. Una celebrazione della cultura collettiva. Una condivisione che richiede — udite udite — un minimo di rispetto per il luogo, per l’arte, per il prossimo e perfino per se stessi. E invece, da tempo, il teatro soffre di una certa sciatteria esistenziale. L’abito è solo il primo segnale, ma la decadenza è ben più vasta: cellulari che squillano nel bel mezzo della Nona di Beethoven, foto scattate in piena morte di Violetta, popcorn portati in sala come se fossimo all’anteprima Marvel, e addirittura oggetti lasciati sulle balaustre, con risultati che sfociano nel tragicomico.
Perché è capitato anche questo: un cellulare caduto da un palco ha colpito in testa un povero spettatore in platea. Una sorta di commedia dell’assurdo che nemmeno Ionesco avrebbe osato immaginare. È in questo contesto di costumi sbrindellati e buone maniere disciolte che si inserisce la decisione — sobria, per nulla moralistica — del nuovo sovrintendente Fortunato Ortombina. Un nome che pare uscito da una novella goldoniana e che, non a caso, arriva dalla Fenice di Venezia, dove il concetto di decoro si è sempre mescolato con quello di stile. Alla Scala, sotto la sua guida, si torna dunque a parlare di eleganza come atto politico, civile, culturale. E diciamolo senza infingimenti: è triste doverlo specificare. È desolante che l’ovvio debba essere stampato su cartello.
Ma è anche un gesto necessario. Perché in un mondo in cui la sciatteria è ormai considerata un diritto e l’eleganza un privilegio elitarista da abbattere a colpi di short e canotte, ricordare che la bellezza merita rispetto è già un atto rivoluzionario. Certo, come ricorda il sovrintendente uscente Dominique Meyer (che da giovane fu redarguito per un “look da operaio” all’Opéra di Parigi), il teatro deve essere aperto a tutti. Ma accoglienza non è sinonimo di lassismo. Nessuno pretende di vestire Armani per sentire una Cavalleria rusticana. Ma vestirsi come se la cultura meritasse almeno un pensiero in più, sì, questo sì.