Economia

Lavoro, Legacoop-Ipsos: il 42% degli italiani vede negativo (con punte al 60%), il 55% si realizza altrove

Redazione
 
Lavoro, Legacoop-Ipsos: il 42% degli italiani vede negativo (con punte al 60%), il 55% si realizza altrove

C’è stato un tempo in cui il lavoro era il pilastro della dignità, l’incudine su cui si forgiava l’identità personale e il trampolino dell’autorealizzazione. Oggi, invece, è più simile a una ruota da criceto, sulla quale corri finché non ti accorgi che non stai andando da nessuna parte. Un dovere, più che un’opportunità. Un contratto a tempo indeterminato con l’insoddisfazione.

Lavoro, Legacoop-Ipsos: il 42% degli italiani vede negativo

A dirlo non è l’ennesimo sfogo da bar o un post velenoso su LinkedIn, ma il nuovo report FragilItalia “Lavoro e alienazione”, realizzato da Area Studi Legacoop in collaborazione con Ipsos, che ha messo sotto la lente le opinioni di un campione rappresentativo di italiani sul loro rapporto con l’occupazione. Il quadro che ne emerge è quello di un Paese che lavora – sì – ma a denti stretti, senza passione, senza scopo e spesso con una buona dose di risentimento.

Cominciamo dai numeri. Alla domanda su come descriverebbero il proprio lavoro, più di 4 italiani su 10 (il 42%) hanno utilizzato almeno un aggettivo negativo: "impegnativo", "stressante", "faticoso", "distaccato". Ma il picco di disamore si tocca nella fascia d’età 31-50 anni – ovvero quella che, teoricamente, dovrebbe dare il massimo in carriera – dove la percentuale sale al 60%. Forse perché, oltre a lavorare, tocca pure crescere figli, pagare mutui e sorridere in videochiamata alle 19.42 del venerdì sera. E i positivi? Sono appena il 34% a usare parole come "dinamico", "creativo", o "in linea con il mio modo di essere".

Qualche barlume di ottimismo resiste tra i laureati (41%), nel ceto medio (43%) e – guarda caso – sempre tra i 31-50enni. Forse quelli che riescono ancora a incastrare il pilates tra due riunioni su Zoom. Una delle tendenze più preoccupanti riguarda la nuova alienazione lavorativa: uno scollamento emotivo e valoriale tra il lavoratore e ciò che fa. Quasi 4 su 10 (il 39%) dichiarano di non riuscire a esprimere la propria personalità nel lavoro. Ma il dato schizza a 61% nel ceto popolare, 52% tra chi ha bassa scolarizzazione, e 49% tra gli under 30. I giovani, insomma, non solo si sentono precari, ma anche invisibili.

Il 23% degli italiani (che diventa un preoccupante 42% nel ceto popolare) si sente “disconnesso dal prodotto finale”, come se il proprio contributo fosse una goccia nel mare dell’inutilità. E il 22% vive una costante assenza di significato nel lavoro – che nel ceto popolare colpisce addirittura il 47%. Insomma, più sei povero, più è facile che il tuo lavoro sembri inutile. Il che è, diciamocelo, un paradosso crudele.

Ma non tutto è buio pesto. Gli over 64 e il ceto medio sembrano vivere il lavoro in maniera più serena, forse perché lo hanno lasciato o perché possono permettersi di non odiarlo. Il 62% degli over 64 e il 54% del ceto medio non avverte mai o raramente la mancanza di senso. Il 71% degli ultrasessantaquattrenni e il 68% del ceto medio sente di poter esprimere la propria personalità nel lavoro, e l’84% degli anziani, insieme al 77% del ceto medio, si dichiara connesso alla propria attività.

Il presidente di Legacoop, Simone Gamberini (in foto), fotografa il tutto con una lucidità che dovrebbe far rumore: “Il lavoro, da motore di dignità e sviluppo, si sta trasformando sempre più in un fattore di insoddisfazione e alienazione. Il lavoro, oggi, rischia di diventare una trappola di fatica e frustrazione. Stress, alienazione e insoddisfazione dilagano, colpendo soprattutto chi dovrebbe essere nel pieno della propria vitalità professionale. Se sei giovane o appartieni al ceto popolare, hai il doppio delle probabilità di sentirti disconnesso, svuotato, senza scopo."

E aggiunge: “Incidenti sul lavoro, retribuzioni che non tengono il passo, perdita di senso e di realizzazione nella propria attività lavorativa: non interrompere questa deriva significa compromettere il futuro di un'intera generazione. Senza un lavoro che valorizzi le persone, si svuota il senso stesso della crescita economica e sociale e il lavoro deve tornare ad essere uno strumento di emancipazione, non di sofferenza. Serve un impegno comune delle istituzioni e delle parti sociali per costruire contesti lavorativi che riconoscano e valorizzino le persone, restituendo senso e prospettiva stabile e sicura al loro impegno quotidiano. Il senso di questo primo maggio, sempre più attuale, è che non c'è futuro senza lavoro dignitoso e sicuro."

Il dato forse più rivelatore – e più drammaticamente attuale – è quello relativo alla disaffiliazione: il 55% degli italiani si sente più realizzato fuori dal contesto lavorativo, un dato che sale al 64% nel ceto popolare e al 62% nella fascia 31-50 anni. Cioè: la maggioranza delle persone trova più soddisfazione nel bricolage domenicale, nell’orto urbano, nei podcast crime o nelle serate karaoke, che in otto ore d’ufficio. Il 45%, al contrario, si dice realizzato nel proprio lavoro, con punte del 62% tra gli over 64, del 50% nel ceto medio e del 49% tra le donne.

Qualcosa, insomma, si salva ancora. Ma poco. Infine, il colpo di grazia emotivo: 4 lavoratori su 10 si sentono esausti almeno qualche giorno a settimana a causa del lavoro. Il numero sale a 48% tra i 31-50enni e a 69% nel ceto popolare. Praticamente, una nazione in burnout cronico. Una nota positiva arriva sul fronte del work-life balance: il 65% ritiene che il lavoro non interferisca negativamente con la vita privata (con picchi dell’81% tra gli over 64 e del 78% nel ceto medio). Ma tra i 31-50enni e nel ceto popolare la percezione cambia: rispettivamente 42% e 61% denunciano un impatto negativo. Insomma, si lavora troppo, si guadagna poco, e ci si stressa moltissimo. Ma per fortuna, c'è il giardinaggio.

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