Il temine comunicatore troppo spesso viene assimilato a quello del giornalista, dimenticando che le due professioni operano con finalità differenti, perché il giornalista deve (dovrebbe) informare, mentre al comunicatore è chiesto di essere un analista, un esperto di tutto e su tutto, un consigliere, un osservatore, uno stratega, un confessore e forse anche altre cose, vivendo al cospetto del dio di turno.
È tempo che i comunicatori abbiano lo Stato come garante
Ma oggi, nel nostro Paese, questo profilo, altamente professionale, è avvolto nelle nebbie dell'indeterminatezza, non per gli obiettivi esso si prefigge, ma per il fatto che in tanti e forse anche troppi si definiscono comunicatori anche se il loro ruolo è ben diverso, limitandosi (ma senza che questa venga presa come una deminutio) a fare da tramite tra il ''dante causa'' del momento e il destinatario finale, solitamente persone che agiscono nel medesimo ambito.
Invece è tutto il contrario, avendo ormai il comunicatore tante e tali responsabilità da renderlo figura centrale del complesso meccanismo che presiede il rapporto tra aziende o enti e l'esterno.
Al comunicatore è chiesto tutto e, a differenza di altri, per lui il rapporto fiduciario con chi lo ''paga'' è, insieme, un riconoscimento di professionalità, ma anche la possibilità che, venendo meno, egli sia ritenuto un responsabile di qualsiasi accadimento che non sia in linea con le aspirazioni dei ''committenti''.
Eppure, ancora oggi, quando il resto d'Europa, per non parlare degli Stati Uniti, questa figura è codificata in ogni sua comportamento, in Italia la professione di comunicatore vive in una sorta di limbo, caratterizzato da una miriade di organismi di rappresentanza, tra associazioni, federazioni, gruppi e circoli.
Con tutti questi soggetti che rivendicano ruoli e competenze che, certamente, ci sono, ma che alla fine contribuiscono ad una frammentazione della categoria, in cui ciascuno ritiene di essere nel giusto, di fare il giusto, mancando quello che dovrebbe essere l'obiettivo primario: essere parte del processo produttivo del Paese dall'alto di una preparazione e di un ruolo che, altrove, viene riconosciuto e soprattutto garantito.
Con la conseguenza che la proliferazione di soggetti che dicono di parlare per la categoria ha solo indebolito il pur meritevole obiettivo di renderla più riconoscibile e, quindi, garantendo che in essa operino solo professionisti e non invece chi, magari perché non ha trovato il suo posto nel mondo del giornalismo puro, pensa di riciclarsi in un settore che invece ha la sua specificità e, quindi, necessita di una alta preparazione in campi che vanno dall'economia, ai rapporti istituzionali, alla politica, alla finanza.
È quindi arrivato il momento che qualcuno cerchi di mettere ordine in un settore che oggi vive di una perniciosa approssimazione che, spesso, tracima nella sciatteria.
E questo qualcuno è il governo, e, in particolare, il Ministero del Lavoro che, più e meglio di altri, potrebbe intervenire per dare alla categoria dei comunicatori quella specificità che spesso le viene negata, assimilandoli alla pure rispettabilissima categoria degli addetti stampa, che fanno un ottimo lavoro, ma che sono un'altra cosa.
Quindi un ordine, un albo o come lo si voglia chiamare per fare dei comunicatori una professione codificata, con precisi requisiti richiesti, frutto di un comune lavoro tra Ministero e veri esperti, ovvero di coloro che nella e di comunicazione hanno fatto la loro missione. Un ordine o un albo che raggruppi chi veramente lavora in questo settore e che, per iscrivervi, accetti di seguire poche, ma certe regole, a cominciare da un codice etico, che eviti di mischiare ruoli e competenze.
Certo esistono già due precisi punti di riferimento per la categoria (la legge 150 del 2000 e la norma tecnica Uni 11438 del 2021), ma che appaiono non sufficientemente di garanzia, anche in termini di tutela di chi opera nel campo della comunicazione.