Nella corsa cieca e feroce a fare dell'immigrazione irregolare un nemico da annientare, l'amministrazione Trump ha riaperto le ferite più profonde della società americana: quelle che attraversano l’innocenza dell’infanzia. L’ossessione per le espulsioni di massa ha ormai travolto anche i più fragili, trasformando bambini cittadini statunitensi in vittime collaterali di una repressione implacabile.
Stati Uniti, immigrazione: l'infanzia stritolata dalla macchina delle deportazioni
La promessa di colpire solo i ''criminali'' si è rivelata un’illusione mediatica. A pagare il prezzo più alto sono spesso famiglie spezzate, minori privati delle cure mediche e della stabilità affettiva, infanzia calpestata senza riguardo. Secondo un’indagine congiunta del Brookings Institution e del Center for Migration Studies, oltre 5,6 milioni di bambini americani vivono con almeno un familiare senza documenti.
Il dato è allarmante: quasi l’8% dei bambini cittadini si trova ''a rischio'' a causa della stretta sulle deportazioni, la più estesa della storia degli Stati Uniti. Di questi, 4,71 milioni hanno almeno un genitore irregolare e ben 2,66 milioni vivono in nuclei in cui tutti i membri adulti sono senza permesso di soggiorno. Le conseguenze psicologiche sono devastanti. Il rapporto avverte che ''gli effetti della separazione forzata tra genitori e figli includono un’escalation immediata dello stress, oltre a danni cognitivi, comportamentali e di sviluppo che possono accompagnarli per tutta la vita''. La maggior parte di queste famiglie vive negli Stati Uniti da oltre un decennio. Eppure, oggi si trovano sull’orlo del baratro.
La direttrice del National Immigration Project, Sirine Shebaya, racconta con amarezza il caso emblematico di tre bambini cittadini americani deportati in Honduras con le loro madri: ''Si sta creando un ambiente che mette in pericolo bambini e genitori. Fondamentalmente, si tratta di separazione familiare''.
Tra i minori coinvolti, una bimba di due anni è stata espulsa con la madre senza il consenso paterno, nonostante fosse in corso un ricorso legale. Un altro bambino, affetto da un cancro in stadio avanzato, è stato trasferito senza medicinali né continuità terapeutica. Il tutto, nel cuore della notte e senza preavviso. Le madri erano state convocate per i consueti appuntamenti con l’agenzia ICE, quella che ha competenza sull'immigrazione.
Ma quella volta, gli agenti hanno chiesto loro di portare i figli e i passaporti. Secondo Shebaya, "è stata una trappola. Sono state trattenute senza accesso a un legale, senza possibilità di prendere decisioni. I bambini sono stati deportati illegalmente. Questo fa parte della nuova strategia repressiva lanciata dal governo nei primi cento giorni".
È bene ricordarlo: per legge, i cittadini americani non possono essere espulsi. Ma l’apparato burocratico e repressivo si muove con tale brutalità da eludere ogni norma. Ai genitori viene chiesto se vogliono portare i figli con sé o lasciarli nel Paese. Ma come si può decidere, in pochi minuti, se affidare un bambino a estranei o condurlo in terre dove non ha diritti, né lingua, né sicurezza? È un dilemma disumano che viene imposto con fredda efficienza. In risposta alla crescente indignazione pubblica, il Dipartimento della Sicurezza Interna ha difeso le sue operazioni affermando che ''i media stanno vergognosamente diffondendo una falsa narrazione per demonizzare i nostri agenti ICE, che stanno già subendo un aumento del 300% nelle aggressioni''. Anche Tom Homan, capo della polizia di frontiera, ha dichiarato che l’agenzia avrebbe ricevuto il consenso delle madri per deportare i figli.
Ma Shebaya smentisce: "Agiscono in fretta per riempire gli aerei, senza lasciare tempo alle procedure ordinarie. C’erano parenti pronti ad accogliere i bambini, ma non è stato dato loro modo di intervenire''.
La retorica dell’ ''immigrato criminale'' crolla davanti alle storie vere.
Come quella di José, padre di tre figli e marito di una cittadina americana, recentemente raggiunto da un ordine di espulsione dopo un semplice controllo stradale. ''Non sono criminali, sono esseri umani con speranze, famiglie e sogni. Amano questo Paese e vogliono costruirsi una vita qui nel modo giusto. Meritano dignità, non detenzione'', ha affermato a El País l’avvocata Kate Lincoln-Goldfinch, costretta a chiudere la sua organizzazione, Vecina, dedicata al ricongiungimento dei minori non accompagnati con le famiglie, per mancanza di fondi e crescenti ostacoli politici. Ancora oggi, circa 1.400 dei 5.000 bambini separati durante il primo mandato Trump non sono mai stati riuniti ai genitori.
E ora, nel mirino ci sono anche i bambini che arrivano da soli alla frontiera. Il governo ha tagliato i fondi alle organizzazioni che offrivano assistenza legale, costringendo i minori a presentarsi da soli davanti ai giudici dell’immigrazione.
In molti casi, sono bambini piccoli, incapaci perfino di parlare, che dovrebbero difendersi da un pubblico ministero esperto. Jason Boyd, vicepresidente per le politiche federali di KIND (Kids in Need of Defense), lancia l’allarme: "Nemmeno un dollaro di quei fondi può essere usato per servizi legali essenziali. È la differenza tra la salvezza di un bambino e il suo sfruttamento da parte di un trafficante". Una proposta di legge repubblicana, ora in discussione, intende imporre una tassa fino a 8.500 dollari alle famiglie affidatarie per ottenere la custodia dei bambini.
Un ostacolo insormontabile per i nuclei più poveri, che rischia di sabotare ogni tentativo di ricongiungimento. Di fronte a questo scenario distopico, Lincoln-Goldfinch lancia un appello disperato: "Come persona che vive questo lavoro ogni giorno, esorto il popolo americano e i nostri leader a scegliere la compassione. Scegliamo il buon senso. Invece di separare le famiglie, concentriamoci sul tenerle unite. Distruggere le famiglie non è la soluzione".