Il sogno di una Europa politicamente importante, capace di recitare un ruolo di protagonista sugli scenari planetari, s'è infranto miseramente in un pomeriggio scozzese, con Donald Trump che torna tronfio a Washington, avendo vinto su tutta la linea la guerra commerciale scatenata contro l'Ue.
La sua politica, fatta di minacce e insulti, ha pagato e l'Ue deve bere un calice che sarà, nel tempo, molto più amaro di quanto lo sia oggi, perché l'accordo (anche se questo termine dovrebbe presupporre che le parti siano soddisfatte o non insoddisfatte nella medesima misura) sarà una palla al piede dell'economia dei Paesi dell'Ue non tanto dal punto di vista economico (seppure i nuovi dazi triplichino nella sostanza i precedenti), quanto perché ha dimostrato che il blocco non aveva armi per contrastare l'arroganza americana, accettando come partner privilegiato chi, appena poco tempo fa, l'ha accusata di essere quasi una associazione criminale, creata con il solo scopo di grassare e depredare i ''poveri'' Stati Uniti, anime candide del commercio globale.
Premettendo che sino a oggi c'era una evidente disparità nell'applicazione di dazi e che alla fine si sarebbe dovuto arrivare ad un riequilibrio, è il modo con cui si è giunti all'intesa che è una mortificazione per un blocco che rappresenta centinaia di milioni di persone, quindi con un presunto enorme peso politico, e che oggi si ritrova a definire soddisfacente quello che ha ottenuto. Cornuti e contenti, direbbe il saggio popolano.
Certo Ursula von der Leyen è andata all'incontro con Trump con un mandato pieno, che l'autorizzava a ratificare i contenuti di una intesa, ma da qui a dire che il trattato sia il migliore possibile, sic stantibus rebus, è a dir poco inesatto.
Dopo avere fatto la voce grossa con la Cina (con parole che sono sembrate dette a nuora - Pechino - perché suocera - Washington - intenda, quasi facendo capire lo spirito malleabile con cui si accostava all'incontro in Scozia), von der Leyen ha ceduto su punti che, a guardarli dall'assunto politico, sono un passo indietro rispetto alla sbandierata volontà di fare dell'Europa un soggetto forte e determinante nel panorama globale.
Accettare, ad esempio, di investire centinaia di miliardi in territorio americano significa che le aziende europee dovranno rivedere gli eventuali piani o progetti per farlo in casa propria, con una operazione che, a lungo termine, sarà un boomerang per l'economia del continente e quindi per i lavoratori.
Chinare, poi, il capo davanti all'innalzamento delle spese militari per i Paesi Nato, accettare di acquistare energia americana per centinaia di miliardi, in un accordo con un presidente che certo non fa della coerenza la cifra del suo agire quotidiano, significa consegnarsi, legandosi mani e piedi, ad una condizione di perenne subordinazione con l'ingombrante figura che siede alla Casa Bianca.
La realpolitik imponeva che un accordo si raggiungesse, ma è il come e il quanto che si è accettato che di fatto relega l'Ue ad un ruolo politico di secondo piano perché, se si guarda al tetto dei tassi - 15% - , non si può non rilevare che all'Europa comunitaria è stato riservato lo stesso trattamento del Giappone.
Ora l'accordo passa all'esame dei Parlamenti dei 27 Paesi e ci sarà da aspettarsi che, anche in caso di ratifica, le voci dissonanti si faranno sentire. Magari anche di qualche capo di Stato, come Emmanuel Macron, che ha sollecitato l'Europa a tirare fuori gli attributi e a usare il bazooka dei contro-dazi. Che questa potesse o possa essere la contromossa giusta è difficile da dire. Di certo, agitare lo spettro di una raffica di tariffe contro le merci americane - delle quali Trump avrebbe poi dovuto giustificarsi con i suoi concittadini - era un modo, sebbene non l'unico, per riaffermare che l'Europa è una realtà e non invece il sogno sfumato di oggi.