FOTO (Cropped): Estevoaei - CC BY-SA 4.0
C'è qualcosa di profondamente simbolico nel fatto che stasera le campionesse del mondo in carica scenderanno in campo per il debutto agli Europei femminili 2025. Non è solo una partita. Non è soltanto una nuova rincorsa al trionfo sportivo. È l’eco di una rivoluzione iniziata fuori dal campo, nata non da uno schema tattico ma da un rifiuto: quello di subire, di tacere, di lasciar passare. Per anni, la nazionale femminile spagnola ha lottato su due fronti: contro le avversarie e contro una federazione che le trattava come ospiti scomode più che come portabandiera della nazione.
La rivoluzione silenziosa del calcio femminile spagnolo
Il loro storico trionfo ai Mondiali del 2023, invece di essere il canto di vittoria che meritava, è stato contaminato da un gesto che ha scosso il mondo: il bacio non consensuale dell’allora presidente federale Luis Rubiales a Jenni Hermoso. Un gesto tanto breve quanto indelebile, che ha aperto una crepa profonda nel sistema sportivo e sociale spagnolo. E, come spesso accade nei momenti di frattura, da quella crepa è filtrata la verità. “Il pessimo comportamento di Rubiales ai Mondiali è stato come la goccia che ha fatto traboccare il vaso”, ha dichiarato Joanna Pardos, regista del documentario Netflix It’s All Over: The Kiss that Changed Spanish Football, intervistata da The Guardian. “È stata la punta di un iceberg. Avrei preferito che non fosse successo perché è stato disgustoso, ma il bacio ha contribuito a svelare l’intero iceberg sottostante”.
Ma quell’iceberg non era nuovo. Era già lì, da anni. Già nel 2022, quindici giocatrici avevano scelto di non rispondere alla convocazione, protestando contro il tecnico Jorge Vilda e il suo metodo gestionale autoritario. La risposta della federazione? Sminuirle pubblicamente. Etichettarle come ribelli. Eppure, hanno resistito. Nonostante tutto, hanno vinto.
Ma la vittoria non è bastata a proteggerle. Il sistema, scosso ma non abbattuto, ha cercato di riorganizzarsi. Rubiales, anziché dimettersi, ha gridato alla stregoneria del “falso femminismo”. Intanto, la squadra chiedeva solo il minimo sindacale: voli dignitosi, stipendi equi, condizioni da professioniste. Diritti, non privilegi. Oggi, mentre la Roja si appresta a disputare l’Europeo, qualcosa è cambiato. Ma non per tutti. Lo testimoniano le parole di Aitana Bonmatí, due volte Pallone d’Oro: “Ricordo quando venivo a giocare per la nazionale e non mi piaceva; volevo solo tornare a casa, a dire il vero… Ora è tutto migliore”, ha detto la centrocampista alla stampa lo scorso mese. Alexia Putellas, anche lei due volte regina del calcio mondiale, conferma: “Le condizioni sono cambiate molto. Ora godiamo di condizioni che sono al top della nazionale maschile. È qualcosa che ha richiesto molto impegno e lavoro da parte di molte persone”.
Eppure, in questa narrazione di progresso, manca un volto: quello di Jenni Hermoso, miglior marcatrice della storia della Roja, esclusa dalla convocazione. Una decisione che pesa, che sa di rimozione simbolica. “Le donne che si sono espresse contro le loro federazioni hanno finito per sacrificare la loro carriera sportiva. È così che funziona”, ha affermato Mar Mas, presidente dell’Associazione spagnola per le donne nello sport professionistico, in un’intervista a The Guardian.
“Nonostante tutte le leggi sulla parità e i protocolli, le donne non sono ancora pienamente tutelate quando si tratta di esercitare i propri diritti”. Lo ha capito anche l’accademia. Helena Legido-Quigley, docente dell’Imperial College di Londra, ha colto la portata del momento. Insieme a Women in Global Health Spain ha lanciato un appello a ricercatrici e professioniste affinché condividessero le proprie esperienze di abusi e silenzi. In cinque giorni, sono arrivate oltre 200 testimonianze. “Quello che era chiarissimo era che non si trattava mai del bacio”, ha detto Legido-Quigley. “Si trattava molto più di potere, di consenso e anche del modo in cui le istituzioni proteggono il potere degli uomini”.
Il bacio non era un inciampo. Era il sintomo. Il sistema, quello che nasconde sotto la retorica progressista una persistente resistenza al cambiamento, ha reagito. Legido-Quigley l’ha definita “una nuova narrazione” volta a screditare il femminismo e a minare la fiducia della società nella gravità di certi abusi. Tutto questo anche se la Spagna, in teoria, è un Paese modello per l’uguaglianza. Ma le leggi, senza sanzioni, restano simboli vuoti. Lo ha detto con chiarezza ancora Mar Mas: “Si può riempire una città di semafori, ma se non c’è nessuno che multi chi passa col rosso, non farà alcuna differenza”. Ed è proprio questo il cuore del problema. La Spagna ha mostrato il volto ipocrita di molte democrazie occidentali: l’immagine di un’uguaglianza di facciata, che resiste finché non disturba i piani di chi detiene il potere. Eppure, proprio come accade nelle migliori storie sportive, il vero colpo di scena è la resilienza.
La Roja è diventata, suo malgrado, il simbolo di un’intera generazione. Una generazione che non chiede il permesso di esistere, ma lo esercita. Che non accetta le scuse, ma pretende cambiamenti reali. E che ha trasformato una squadra in un movimento. La storia di questa nazionale è il racconto di una resistenza lucida e consapevole. Un messaggio potente: non c’è vittoria più grande che essere artefici del proprio destino. Anche quando costa cara. Anche quando si paga in esclusioni, insulti e rinunce. Perché nel calcio, come nella vita, ciò che conta davvero non è solo il punteggio sul tabellone. Ma la capacità di lottare per ciò che è giusto. La Roja, in questo, ha già vinto. E ogni volta che entra in campo, ci ricorda che il vero trionfo non è sollevare una coppa. È cambiare il mondo, un dribbling alla volta.