FOTO: Velthur - CC BY-SA 4.0
C’è chi la chiama arte, chi installazione, chi provocazione. Io la chiamerei semplicemente spazzatura estetizzata.
Al Mambo di Bologna, qualcuno ha pensato bene di appoggiare un gatto impagliato su una fotocopiatrice, invitando i visitatori a produrre la propria copia cartacea del cadavere. L’opera, battezzata con l’arguzia di un titolo da bar sport “Copycat” e firmata dal duo Eva e Franco Mattes, fa parte della mostra “Facile ironia”.
Il gatto impagliato sullo scanner: arte o discarica estetica?
Facile davvero: basta profanare il corpo di animale e il gioco è fatto.
La scena è di quelle che farebbero impallidire non tanto per lo scandalo, quanto per la sua miseria concettuale: il felino, con gli occhi vitrei inchiodati per l’eternità al nulla, giace sul vetro dello scanner come un cimelio da ufficio andato a male. Il visitatore si avvicina, pigia il tasto verde e porta a casa il souvenir macabro.
Voilà, la cultura del nulla in fotocopia.
Ora, qualcuno obietterà che l’arte contemporanea da decenni si nutre di provocazione. Certo.
Duchamp piazzò un orinatoio in un museo e lo trasformò in capolavoro concettuale, ma l’orinatoio era un oggetto inanimato, e dietro c’era una riflessione sulla funzione stessa dell’arte e delle istituzioni culturali.
Piero Manzoni inscatolò le proprie deiezioni, chiamandole “Merda d’artista”, e lo fece per demolire l’ipocrisia del mercato dell’arte, non per umiliare un essere vivente.
Qui, invece, cosa resta? Un animale - che un tempo respirava, si muoveva, semplicemente viveva - ora ridotto a materiale da cancelleria. E non venitemi a dire che è arte. Perché l’arte che lascia il segno è quella che genera pensiero, non quella che scimmiotta il peggior trash tv o social trasformandolo in installazione.
Qui non c’è nulla di geniale: solo un povero animale usato come oggetto scenico, con la dignità violata e un pubblico invitato a consumarne la morte come gadget. Non stupisce che la Lav parli di “violenza estetizzata”. Gianluca Felicetti ha lanciato un paragone tanto brutale quanto inappuntabile: ''Esporreste mai il corpo di un bambino morto su una fotocopiatrice?''. La risposta è ovviamente no.
E allora perché dovrebbe essere accettabile con un gatto? L’empatia non è un lusso, né può essere selettiva. Il rispetto per la vita non ammette deroghe artistiche. La questione non resta confinata alle associazioni: la politica è intervenuta con un’interrogazione in Regione, chiedendo linee guida chiare per evitare simili derive. Perché non si tratta solo di libertà artistica, puntualmente invocata come scudo, ma di un museo pubblico, finanziato anche con soldi dei cittadini.
E i cittadini hanno diritto a non veder trasformato il corpo di un animale in attrazione da luna park horror postmoderno. Che poi a dispetto del titolo della mostra, l’ironia qui è completamente assente. Resta soltanto un grottesco circo dell’insensibilità, un teatrino che si nasconde dietro la parola “arte” per giustificare la pigrizia intellettuale e il cattivo gusto. È la stessa logica che confonde lo shock con il pensiero, la provocazione fine a sé stessa con la critica sociale. Perché, diciamolo: non basta piazzare un gatto impagliato su una fotocopiatrice per diventare artisti.
Serve un’idea, e qui non se ne intravede l’ombra. Anzi, in un’epoca che parla di transizione ecologica, di tutela della biodiversità, di nuovi diritti per gli animali, esporre un cadavere su uno scanner è un passo indietro di decenni.
No: non è arte. E’ una caricatura crudele che non merita spazio in un museo. Perché l’arte, quella vera, è invenzione, sguardo, intuizione. Questa, al massimo, è la scenografia dell’insensibilità. Anzi, peggio: pornografia della morte.