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Dress code a scuola: il rischio di perdere il senso delle cose

Barbara Leone
 
Dress code a scuola: il rischio di perdere il senso delle cose

Negli ultimi giorni le scuole italiane hanno deciso di mettere mano a un tema che, ciclicamente, torna a far discutere: il cosiddetto dress code. Da Nord a Sud, i dirigenti hanno riempito le bacheche di circolari dedicate all’abbigliamento degli studenti, con l’obiettivo dichiarato di garantire il decoro in classe.

Dress code a scuola: il rischio di perdere il senso delle cose

Una pioggia di regole che vanno dai divieti più prevedibili - minigonne, scollature profonde, pantaloni a vita bassa - fino a prescrizioni che sembrano uscite più da un regolamento condominiale che da un progetto educativo. In Puglia, ad esempio, in un istituto superiore di Conversano è stata ripescata una circolare del 2018 che sottolinea l’assoluta necessità di evitare abiti che “evocano tenute estive o addirittura balneari”: niente pantaloncini corti, bermuda, canottiere o ciabatte. A Pisa, invece, una scuola ha scelto una linea ancora più dura: nella circolare del 12 settembre scorso è stato stabilito il divieto assoluto di indossare “ogni tipo di pantaloncino e top di qualsiasi lunghezza e misura”, con tanto di minaccia di allontanamento per i trasgressori.

Ancora più originale il caso di un istituto di Trezzano sul Naviglio, alle porte di Milano, dove il concetto di decoro ha inglobato persino le unghie: quelle troppo lunghe e appuntite sono state considerate incompatibili con l’ambiente scolastico.

Dietro a questo fiorire di regole non ci sono solo ragioni estetiche. Le scuole parlano di scopi educativi e pedagogici, evocano principi come l’uguaglianza sociale, la sicurezza, l’igiene, il rispetto reciproco, la convivenza civile. Qualcuno spiega che un dress code può aiutare a ridurre le differenze economiche tra gli studenti, impedendo che le mode e le firme diventassero motivo di bullismo o discriminazione. C’è persino chi ha ipotizzato l’introduzione di divise con il logo della scuola, come già avviene in altri Paesi.

Tutto giusto, sulla carta. Ma, al di là delle buone intenzioni, sorge spontanea una domanda: davvero la serietà di un’istituzione si misura nell’elenco di ciò che si può o non si può indossare? Il Codacons, che ha preso posizione sulla vicenda, ha paventato il rischio di un ritorno al grembiule obbligatorio e ha ricordato come le famiglie, già provate dal caro-scuola con libri e materiali in costante aumento, non abbiano bisogno di ulteriori vincoli su come vestire i propri figli. Regole eccessivamente rigide rischiano infatti di creare confusione, alimentare tensioni e, paradossalmente, limitare la libertà degli studenti senza riuscire a trasmettere il vero significato della parola “decoro”. Ed è qui che, credo, sia necessario recuperare un concetto tanto semplice quanto rivoluzionario: il buon senso.

Non servono elenchi sterminati di divieti per insegnare ai ragazzi che esiste un abbigliamento adeguato a seconda dei contesti. È questione di equilibrio, di misura, di quella virtù che Orazio chiamava aurea mediocritas: dorata via di mezzo, l’ideale per una vita equilibrata. Perché se è ovvio che non si può entrare a scuola in costume da bagno, è altrettanto assurdo vietare un paio di bermuda decorosi in piena estate. Allo stesso modo, le ciabatte restano fuori luogo, ma inserire in un regolamento le unghie “troppo appuntite” sfiora il grottesco. Il buon senso, poi, non riguarda solo la scuola. Nessuno andrebbe in ufficio con la stessa mise scelta per un concerto rock, e nessuno si presenterebbe a un matrimonio in tuta da ginnastica. Non serve una circolare per capirlo: basta il banalissimo buon senso. O l’educazione. Quella che, purtroppo, sembra latitare proprio dove dovrebbe essere coltivata con maggiore cura.

Perché se la scuola spende energie nel misurare centimetri di stoffa, ma tace quando si tratta di educare i ragazzi al rispetto reciproco, qualcosa non torna. La verità è che oggi i corridoi degli istituti non sono minacciati dalle minigonne, ma da dinamiche ben più inquietanti: la violenza dei gruppi, il bullismo, la cattiveria che serpeggia e cresce, spesso sotto lo sguardo distratto o impotente degli adulti. E la tragedia di Latina ce lo ricorda con brutalità: perché la vicenda di Paolo Mendico - il quattordicenne che si è tolto la vita dopo anni di derisioni e vessazioni, senza che nessun dirigente, nessun docente, nessun adulto abbia mosso un dito - grida giustizia.

Di fronte a una ferita simile, fa quasi rabbia leggere circolari ossessive sulle ciabatte o sulle unghie. Perché è vero: la scuola non è un campo estivo né un salone di moda, ma un luogo di formazione. E formare significa innanzitutto insegnare il rispetto, educare all’empatia, costruire cittadini capaci di vivere insieme. E se un ragazzo si toglie la vita perché deriso dai compagni e ignorato dai grandi, allora il vero fallimento non è un bermuda fuori ordinanza, ma l’incapacità di vedere il dolore. Ecco perché, più che fissare un codice estetico, bisognerebbe fissare un codice etico e morale. Non un elenco di capi vietati, ma una cultura del rispetto da trasmettere giorno dopo giorno, con la coerenza e la fermezza di chi sa indicare la strada. Questo sì che sarebbe il vero decoro, quello che non si misura in centimetri di tessuto, ma nella capacità di crescere persone migliori.

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