C'è qualcosa di profondamente emblematico nell'assistere, attoniti e con il telecomando in mano come unica arma spuntata, a un uomo adulto che rutta in prima serata. Non una burla accidentale, una goliardata adolescenziale o un guizzo dadaista fuori tempo massimo, ma… un’“esibizione”. Sì, siamo arrivati a questo: la televisione italiana, ancor peggio la Rai, è riuscita a conferire dignità artistica persino al rutto. Siamo su Raidue, canale che un tempo trasmetteva il teatro di Eduardo, e oggi ospita Facci Ridere, titolo già di per sé supplichevole, più vicino all’implorazione di un naufrago che al manifesto programmatico d’una trasmissione comica.
Est flatus in rebus
Al timone del relitto troviamo Pino Insegno, il cui talento, come le profezie della Sibilla, va interpretato con sforzo ermetico, e Roberto Ciufoli, presenza misteriosa che aleggia sullo schermo come lo spettro d’una comicità perduta. Ebbene, in questa arca tragicomica del nulla, è giunto tale Christian Commisso, in arte — se così si può dire senza scadere nell’ossimoro — Ruttovibe. Il suo numero consiste nel ruttare a tempo di musica. Il pubblico ride, i conduttori sghignazzano, i giurati (Nancy Brilli, Gabriele Cirilli e Lello Arena: tre reliquie sacre di un’Italia che fu) si mostrano compiaciuti. E noi? Noi stiamo pagando il canone per farci ruttare in faccia.
La performance — se così si può definire un concerto epigastrico — ha il sapore acre della disfatta. Due minuti abbondanti di suoni che, in un Paese civile, sarebbero serviti da allarme evacuazione, nel senso fisiologico del termine. E invece no: qui si applaude, si ride, si celebra. Insegno, come un novello Virgilio in bermuda, ci conduce letteralmente nelle viscere del ridicolo, e lo fa con la stessa grazia con cui un elefante suona il clavicembalo.
Eppure, non è la trivialità in sé a scandalizzare. L’Italia è patria di Il Petomane, pellicola del 1983 in cui un titanico Ugo Tognazzi rendeva omaggio al leggendario Joseph Pujol, l’uomo che con il solo ano faceva parlare le note. Ma quello era teatro dell’assurdo, satira sociale, arte corporea che trasfigurava il volgare in sublime. Era ritmo, era stile. Era cultura che attraversava l’intestino tenue ma risaliva, miracolosamente, fino alla corteccia cerebrale. Oggi, invece, si resta prigionieri dello stomaco.
La Rai — un tempo vanto nazionale — si è arresa al reflusso dell’intelligenza. Dalla scatola magica esce solo flatulenza, ma senza l’onore d’una risata colta: si emette, si sputa, si sbrodola. Senza ritegno e, soprattutto, senza talento. La reazione social è stata, per una volta, proporzionata allo scempio. “Pago il canone per questo?”, “Cos’è diventata la Rai?”, “Questo sarebbe il servizio pubblico?”. E mentre Report viene falcidiato, la cultura dell’eruttazione si fa spettacolo. Un dettaglio, forse, ma assai significativo: si abbatte chi indaga, si premia chi digerisce male.
Aldo Grasso, mai tenero con Insegno, ha saggiamente rilevato: “C’è uno peggio di lui: Ciufoli.” Parole severe? Forse. Ingiuste? Tutt’altro. Quando il livello è questo, perfino la severità suona come carezza. Facci Ridere è una trasmissione talmente penosa da far rimpiangere il Drive In e la Corrida di Corrado, che almeno aveva il pudore del dilettantismo dichiarato. Qui, invece, si pretende l'applauso. Anzi, lo si esige. E allora interroghiamoci: cos’è rimasto della televisione pubblica? Un tempo maestra d’eleganza, oggi si prostituisce al primo alito di follower.
Ruttovibe vanta 800mila seguaci su Instagram. E tanto basta, ormai, per legittimare qualunque sciocchezza. Non importa se il contenuto è assente, se il pensiero è evaporato, se il talento è un’eco lontana. Conta solo il volume: e non quello del pensiero, ma del gas. Nel film di Festa Campanile, Tognazzi faceva ridere e pensare. Liberava venti dalle viscere con grazia. E soprattutto lo faceva con senso. Insegno, invece, si limita a ospitare, come un barista annoiato che versa il vino cattivo nei bicchieri d’argento.
Perché qui sta il punto: anche il triviale, se servito con intelligenza, può essere sublime. Ma quando manca lo stile, resta solo la puzza. Est modus in rebus, ammonivano i latini. C’è una misura nelle cose. Anche nello sberleffo, anche nell’umorismo scatologico. Ma qui non c’è misura, est flatus in rebus, altroché: c’è sciatteria, c’è disprezzo per il pubblico, c’è quella supponenza di chi scambia la volgarità per coraggio, l’insipienza per provocazione.
Certo, la Rai non è nuova a scivoloni. Ma qui non si tratta di inciampare: è un tuffo carpiato nella cloaca dell’intrattenimento. Un salto senza paracadute nel ventre molle d’un Paese che ha smesso di pretendere. E se questo è il nuovo umorismo nazionale, allora prepariamoci: la prossima stagione, in diretta su Rai1, assisteremo probabilmente a un campionato in cui si premia chi riesce a defecare il proprio nome in corsivo su un pannolone d’oro zecchino. Nel frattempo, chi può, recuperi Il Petomane. E si ricordi che si può ridere anche dell’aria, purché non sia fritta e stantia. Purché, insomma, non sia Pino Insegno a condurre.