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Sinner fa la storia a Wimbledon nel vuoto istituzionale

Barbara Leone
 
Sinner fa la storia a Wimbledon nel vuoto istituzionale

Jannik Sinner ha vinto Wimbledon. Primo italiano — uomo o donna — a riuscirci in 135 anni di storia. Non servono iperboli: bastano i fatti. Ha battuto Alcaraz, sfatato una maledizione personale, sollevato il trofeo che conta più di tutti. Una partita dominata con lucidità e forza mentale, in una stagione che gli ha già dato tanto, ma che lui ha affrontato con un rigore che non fa notizia. Il momento simbolico è arrivato quando la coppa gli è stata consegnata da Kate Middleton, vestita d’azzurro. Il colore italiano, quello delle nostre nazionali.

Sinner fa la storia a Wimbledon nel vuoto istituzionale

Un dettaglio quasi poetico, che sembrava un segno.
E mentre l’Inghilterra metteva la sua icona in prima fila per onorare il vincitore, l’Italia delle istituzioni era assente. Completamente. Nessuna presenza ufficiale, nessuna figura dello Stato, nemmeno un sottosegretario sacrificabile. Nulla. Il vuoto. Non che Sinner avesse bisogno di testimonial politici per dare spessore alla sua vittoria. Ma la sproporzione resta evidente. Per Alcaraz, sugli spalti c’era il re di Spagna, Felipe. Per Sinner, nessuno. Ed è qui che la retorica della “patria sportiva” mostra tutta la sua ipocrisia.

Immaginate se si fosse trattato di una finale della Nazionale di calcio. Tutti lì, a farsi vedere. A intonare il Canto degli Italiani, con la mano sul cuore.
A salire sul carro del vincitore prima ancora che fosse tagliato il nastro. Perché il calcio, in Italia, non è solo sport: è religione, potere, palcoscenico. Il tennis, invece, continua a essere percepito come una disciplina secondaria. Un hobby elegante. Nonostante i numeri dicano il contrario. Nonostante Sinner abbia acceso l’entusiasmo di una generazione.

E qui non si tratta di pretendere celebrazioni da parata o proclami altisonanti. Ma una presenza, un gesto minimo, un segnale simbolico. Invece niente. Troppo impegnati, evidentemente. Chissà dove. Di certo non su quel campo erboso dove si scriveva una pagina irripetibile di sport italiano. Sinner, dal canto suo, ha fatto ciò che doveva: ha vinto. Senza isterie, senza scene, senza arroganza. Con il suo stile. Con quella freddezza che gli viene rimproverata, ma che è la chiave del suo successo. Non è un eroe da copertina, non fa proclami, non cerca il consenso.

E questo, forse, lo rende scomodo da celebrare, in un Paese dove o sei folklore o non esisti. Non ci illudiamo: l’egemonia del calcio resta intatta. Il tennis appassiona di più rispetto a prima, è vero. Le finali dei tornei slam diventano eventi seguiti anche dai non addetti ai lavori. Ma la cultura sportiva resta monocorde. Se non rotola un pallone, l’Italia ufficiale resta ferma. Se non c’è un rigore da battere, nessuno si alza in piedi.

Eppure Sinner ha dato una lezione. Non tanto di tennis, quanto di spessore. Ha vinto da solo, come sempre. Ha stretto la mano al rivale, ha ringraziato con sobrietà, si è tenuto lontano dai riflettori superflui. Non cerca sponde. Non ne ha bisogno. Ma il Paese che dovrebbe rappresentarlo sì: ne avrebbe bisogno eccome. Per ricordarsi, ogni tanto, dove abita la vera grandezza.

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