Non sono le lapidi del cimitero di Spoon River, quella di William Goode che vagava di notte o di Franklin Jones che sognava di volare; non sono nemmeno le tombe in cima alla collina, cari all'epopea del Grande Ovest. Ma, in una immaginaria mappa della grande provincia americana, quella delle sterminate distese di terreni coltivati, sono tante le puntine che segnano il progredire e l'espandersi di un fenomeno che preoccupa e del quale in tanti cercano di dare spiegazioni.
Usa, il suicidio è una piaga tra gli agricoltori: meglio uccidersi che non perdere le fattorie per la crisi
È il numero crescente dei suicidi tra gli agricoltori, quelli che mandano avanti fattorie che, se attraversi in auto gli Stati delle ''belts'', riconosci anche in lontananza, con i silos per il grano e il frumento che svettano altissimi. Fattorie l'una lontana dall'altra, con grandi distanze che le rendono piccole isole nel mare dorato dei campi. Ma l'isolamento, per chi non sa affrontarlo, per chi non ha accanto a sé una famiglia che lo sproni, che lo motivi, che dia un senso alla sua fatica, è come una corda che si stringe lentamente, sino a soffocarlo.
E, per spezzare quell'abbraccio, sono molti gli agricoltori che scelgono di andarsene, spesso negli stessi luoghi dove lavorano, spaccandosi la schiena, per poi vedere che la natura, sotto la forma di tifoni o di piogge torrenziali o improvvise, quando non sono incendi che il vento spinge fortissimo, che cancella il frutto della loro fatica.
Queste morti, quando il silenzio avvolge i terreni coltivati dal frastuono delle macchine agricole, sono diventate per Kaila Anderson il punto di arrivo e partenza del suo essere, insieme, figlia del Kansas rurale e assistente sociale, di quelle che cercano di intervenire prima che il disagio armi la mano contro sé stessi. Lei, che in questo ambiente è cresciuta e che di esso conosce tutto, dall'esaltazione di un buon raccolto alla disperazione di vedere le piante non germogliare o il vento portarsi dietro tutto, da tempo studia le dinamiche dei suicidi tra gli agricoltori e tra gli allevatori, pure essi in balia della natura che si accanisce contro di loro anche se uccide un vitello, che per loro non è solo carne da vendere, ma la certezza che il ciclo della produzione non si fermerà.
''Gli allevatori non parlano della loro vita interiore - ha raccontato Anderson al Guardian -. Eppure la terra è il denominatore comune. È ciò che li definisce, li sostiene, ma che può anche consumarli''. E' stata questa percezione diventata consapevolezza che ha spinto Kaila ad ideare un progetto nato da una considerazione apparentemente banale, ma che per essere formulata deve essere colta: per raggiungere davvero chi lavora i campi, sottraendolo al vortice della depressione o del senso di avere perduto tutto e, quindi, anche l'interesse a continuare a vivere, occorre parlare la lingua della terra. Da una intuizione al modello terapeutico e formativo adottato da medici di base, operatori delle linee di crisi e farmacisti nelle comunità rurali statunitensi.
LandLogic, questo il nome del metodo, insegna a cogliere quei segnali deboli che spesso sfuggono all’occhio clinico: un semplice ''non riesco più a nutrire le mie mucche'', oppure ''il sorgo non basta per tutta la stagione'', possono celare grida d’aiuto che si perdono nella quotidianità. ''È un adattamento culturale della terapia cognitivo-comportamentale pensato per il mondo agricolo'', spiegato ancora Anderson. Kaila non è solo una osservatrice, perché anche lei, che oggi studia il fenomeno, ne è stata vittima.
Negli anni Ottanta, quando l'agricoltura degli Stati Uniti cadde in una crisi gravissima, il padre, ridotto sul lastrico, si ferì volontariamente per incassare i soldi dell'assicurazione e cercare di andare avanti, assediato dai prezzi che crollavano, dai tassi di interesse che volavano, dalle inesistenti prospettive di uscirne. Nel giro di pochi anni più di 250.000 aziende agricole caddero nelle mani delle banche, davanti all'impossibilità dei proprietari di fare fronte ai debiti. In tanti non ce la fecero e, piuttosto che vedere le loro fattorie fagocitate da altri, si uccisero. Oggi si pensa che il numero di coloro che si tolsero la vita sia superiore a mille in quel decennio.
Ora, a distanza di decenni, le avvisaglie di una nuova crisi si fanno sempre più tangibili. Gli agricoltori fronteggiano l’instabilità dei prezzi delle materie prime, l’inflazione, la scarsità di manodopera, l’epidemia tra gli animali da allevamento e gli effetti sempre più devastanti del cambiamento climatico. Le scelte politiche - dai dazi introdotti da Trump alla riduzione degli aiuti - non hanno fatto che aggravare l’instabilità. Il dolore assume volti nuovi, con l'età di quelli che pensano di farla finita che si abbassa, giovani che vedono andare in pezzi il loro futuro e, prima di affrontarlo, scelgono di non arrivarci. Quella di Kaila Anderson non è comunque una idea totalmente nuova, perché si ispira al lavoro pionieristico del dottor Michael Rosmann, dell'Iowa, psicologo ed egli stesso agricoltore, che, durante la crisi degli anni Ottanta, istituì linee di supporto psicologico e centri di ascolto nelle zone rurali elaborando il concetto di "salute comportamentale agraria", secondo cui la perdita della terra non è solo economica, ma esistenziale. Le sue ricerche dimostrano che, per molti agricoltori, perdere la propria azienda equivale, sul piano emotivo, a perdere un figlio.
Con il tempo, LandLogic si è strutturato in un programma articolato. Insegna a riconoscere distorsioni cognitive tipiche del mondo agricolo, come il catastrofismo o la grinta tossica, quella resilienza ostinata che impedisce di riconoscere la propria sofferenza. ''Non serve essere agricoltori - per Kaila Anderson -, basta iniziare a pensare come loro''.
Eppure nell’immaginario collettivo, l’agricoltore è figura serena, immersa in paesaggi bucolici, custode di un’esistenza semplice e genuina. Ma questa visione romantica si scontra con la realtà. Studi condotti in Australia, Canada, Regno Unito, Francia, India e Stati Uniti mostrano che gli agricoltori soffrono di tassi di depressione e suicidio significativamente più elevati rispetto alla media nazionale. In Australia, addirittura, secondo l'Ufficio nazionale di statistica, il tasso di suicidi tra gli agricoltori è doppio rispetto al resto della popolazione. È una crisi silenziosa, che germina nel cuore delle campagne, lontana dagli occhi delle città. Molti agricoltori vivono in aree remote, dove le giornate iniziano prima dell’alba e terminano ben dopo il tramonto, spesso in una solitudine che corrode. All’isolamento fisico si somma quello emotivo. Il ''fiero silenzio contadino'' impedisce spesso di chiedere aiuto, intrappolando molti in un circuito di sofferenza non detta.