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La meritocrazia secondo Sua Maestà l’Arsenal

Barbara Leone
 
La meritocrazia secondo Sua Maestà l’Arsenal

Che i colloqui di lavoro fossero ormai diventati una variante soft del confessionale del Grande Fratello era chiaro da tempo: sorridi con convinzione, proclama che il team building ti eccita più di un viaggio a Bali e l’ingresso è quasi assicurato.

La meritocrazia secondo Sua Maestà l’Arsenal

Nel Regno Unito però, come racconta il Guardian, il delirio selettivo ha raggiunto un nuovo vertice di poesia giuridica: si può legittimamente scartare un candidato se tifa la squadra sbagliata. A deciderlo è stato il giudice Daniel Wright, che con una serietà degna di un annunciatore del Bollettino della Vittoria ha stabilito che un datore di lavoro può respingere l’aspirante impiegato se il suo cuore batte per un club calcistico diverso da quello venerato in ufficio. E così, in un'ipotetica agenzia di marketing londinese abitata da devoti dell’Arsenal, l’arrivo di un tifoso del Tottenham sarebbe paragonabile a introdurre un agente del KGB in una riunione dei servizi segreti di Sua Maestà.

La vicenda nasce dalla querelle legale di Maia Kalina, candidata respinta da un’agenzia di comunicazione. Il suo torto? Non era abbastanza socievole, non amava il pub e non bestemmiava con la dovuta eleganza britannica. L’intervistatrice, con fine intuito antropologico, ha dichiarato di “sentirsi di più” con l’altra candidata. Tradotto: preferiamo chi ride alle battute sul calcetto del giovedì e brinda, possibilmente bestemmiando, a lager tiepida senza batter ciglio. Kalina, russa, ha osato sostenere di essere stata discriminata perché aliena alla triade culturale “birra, parolacce, pub”.

E qui il capolavoro del giudice, che con olimpico aplomb le ha spiegato che non esiste alcuno stereotipo sugli inglesi sempre ubriachi e sboccati, pur ammettendo che un numero “considerevole” corrisponde esattamente a quella descrizione. Un esercizio di equilibrismo logico che neppure i sofisti dell’antica Grecia.

Ora, che il calcio in Inghilterra non sia sport ma fede lo si sapeva. La rivalità tra Arsenal e Tottenham, nata a inizio Novecento quando i Gunners si trasferirono da Woolwich a Highbury, è diventata negli anni una saga degna dei Tudor: intrighi, tradimenti e un odio ricamato di canzoni da pub. Non stupisce quindi che oggi possa decidere anche le sorti di un colloquio di lavoro: la fedeltà calcistica, oltremanica, vale più della fedeltà coniugale. Il paradosso è che mentre discriminazioni di genere o di età vengono trattate con un certo fastidio burocratico, quella calcistica riceve la benedizione di un tribunale.

Se non ami i Gunners, sei un sabotatore potenziale della pace aziendale. Se invece guadagni meno del collega maschio, è “il mercato, darling”. Un destino che Shakespeare, con il suo talento per le tragedie domestiche, avrebbe trovato irresistibile. In quell’aula di tribunale, insomma, la meritocrazia si è arresa, con buona pace dei manuali di management: meglio assumere un mediocre che indossa la sciarpa giusta che un genio in odore di blasfemia calcistica. Perché se la competenza può essere opzionale, la fedeltà calcistica mai.

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