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Sposa ritardataria e prete con l’orologio svizzero nella tonaca: cronaca di un matrimonio ridotto a farsa liturgica

Barbara Leone
 
Sposa ritardataria e prete con l’orologio svizzero nella tonaca: cronaca di un matrimonio ridotto a farsa liturgica

C’è un mito antico, poetico e, diciamolo, anche leggermente esagerato, che circonda la figura della sposa in ritardo. Un mito che ha attraversato epoche, romanticherie e romanzi rosa. Perché nell’immaginario collettivo una sposa che si fa attendere non è una ritardataria ineducata, equazione implicita, dal momento che far aspettare gli altri è sempre segno di scortesia. Ma lei no: lei è un’eroina epica, una divinità sospesa tra cielo e altare, capace di far trattenere il fiato a tutti.

Sposa ritardataria e prete con l’orologio svizzero nella tonaca: cronaca di un matrimonio ridotto a farsa liturgica

E così, ogni passo incerto del tacco, ogni gesto esitante del bouquet, ogni velo che si trascina con grazia apparente sul pavimento, è una nota in un’orchestra invisibile. Un accordo segreto tra desiderio, vanità e teatralità. Poi arriva la realtà. A Varazze, nella chiesa di Sant’Ambrogio, il mito ha trovato un ostacolo formidabile: don Claudio Doglio, parroco dal rigore inflessibile e dalla pazienza misurata in secondi netti, probabilmente meno incline alle indulgenze poetiche di quanto lo siano gli animi degli innamorati. Tre minuti. Solo tre minuti d’attesa.

Non quattro, non cinque, non il leggendario quarto d’ora accademico, che fa tanto Beautiful. Tre minuti e la cerimonia è iniziata. Senza la sposa. Lei, ostaggio degli eterni dettagli dell’ultimo minuto, non poteva immaginare che il suo ingresso trionfale sarebbe stato sabotato dall’intransigenza di un prete con tanto di orologio svizzero incorporato nella tonaca, che considera la puntualità un principio etico, un valore superiore perfino all’ammmore. Del resto, sposi avvisati mezzo salvati. Perché i piccioncini lo sapevano: volete sposarvi durante la messa domenicale? Bene, allora allo scoccar delle campane si comincia. Ipse dixit. E loro, immoti come statue di sale, non hanno battuto ciglio. Anzi, quando il sacerdote ha suggerito un orario alternativo per non intralciare la funzione, hanno risposto con un secco no, come se la logica fosse un optional. Lo stesso no che don Claudio ha inflitto al ritardo liturgico: mai ossimoro fu più azzeccato.

In tutto questo gli invitati, poveri spettatori di questa farsa involontaria, oscillavano tra pietà, meraviglia e il desiderio incontrollabile di applaudire sarcasticamente. In prima fila i parenti, veri eroi tragicomici della giornata, sfoggiavano sorrisi come camicie mal stirate e tentativi di mediazione degni di un summit Onu. Gli amici, smartphone alla mano, documentavano la scena con lo zelo di inviati speciali, pronti a lanciare il reel del secolo: “Varazze, matrimonio fantasma”.

E intanto si scambiavano sguardi increduli, ondeggiando tra la certezza di vivere un film di Verdone e il sospetto di essere finiti in un reality low cost. Mentre il fotografo, pover’uomo, aveva già pronto lo slogan per la sua carriera: “Matrimonio senza sposa: la vera arte del reportage”. Ogni gesto, ogni sguardo, diventava un capitolo di questa tragicommedia, con l’assenza della protagonista trasformata in presenza ingombrante, come un elefante in mezzo alla navata. Con il parroco, glaciale come un notaio in scadenza, che andava avanti senza concedere neppure una virgola al sentimentalismo.

Niente Ave Maria, niente pause teatrali, niente scenografie degne di un film romantico. Qui l’unico lirismo era quello dei messaggi vocali che rimbalzavano su WhatsApp, delle GIF ironiche condivise sottobanco e di quel bouquet appassito che sembrava gridare: “Game over”. Sullo sfondo lui: lo sposo solo all’altare, che per un attimo avrà pensato di essersi salvato. Per un attimo… poi la sposa è arrivata. Sipario. E vissero tutti felici e contenti. Forse.

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