L'estate della politica, da che mondo è mondo, vive di estemporaneità, di accadimenti che spesso appaiono alimentati dal caldo agostano, quando, tra sudore che cola copiosamente e la ricerca disperata di un angolino senza sole, il cervello va per fatti suoi, cercando l'ombra della ragionevolezza.
Italia-Francia: Salvini prenda esempio da Frank Underwood e dia una chance alla vera diplomazia
Che però non sempre si trova, come insegnano i governi bollati come ''balneari'', che un tempo nascevano e morivano nell'arco di pochi mesi, a cavallo di quelli più caldi, dal punto di vista del termometro, e che segnavano un intervallo tra due distinte fasi della politica.
Quindi che le cronache della politica vivano, in queste ore, non dei grandi problemi del Paese (credeteci, ce ne sono, anche se il conducente non vuole essere disturbato da domande appena appena mirate) , ma delle sparate di un singolo ci sta.
Quello che non può starci è che le dichiarazioni sotto il solleone provochino una ''quasi crisi'' diplomatica tra Italia e Francia per le considerazioni, non certo elogiative, fatte da Matteo Salvini - che ha parlato nella triplice veste: vicepremier, ministro e segretario di un partito della coalizione di governo - nei confronti del presidente francese Emmanuel Macron, che certo non si è riconosciuto nel ritratto che ''l'uomo del Ponte'' ha fatto di lui, dipinto alla stregua di un guerrafondaio che, come tutti quelli della sua specie, brigano per scatenare un conflitto, ma senza pensare nemmeno di parteciparvi di persona. Il tutto condito dal ricorso al dialetto milanese, che la dice lunga sul giudizio che ha del capo di Stato della Francia, trattato alla stregua di un ''bauscia''.
Qui, comunque, non entriamo nel merito della fondatezza delle accuse mosse da Salvini, quanto del solito punto: le esternazioni che il segretario leghista fa in continuazione, invadendo sovente campi altrui.
L'interrogativo è se sia opportuno farle, in un momento in cui l'Italia ha ben altre urgenze, interne ed internazionali, che hanno sicuramente la priorità.
E forse mai come in questi giorni, Matteo Salvini dovrebbe prendere, come spunto per le sue considerazioni, le parole di Frank Underwood, interpretato dal sublime Kevin Spacey di ''House of cards'', secondo il quale ''la seconda regola della diplomazia'' è che ''non c'è una seconda regola della diplomazia''.
Dando per scontato che Salvini abbia ragione nel ripetere che nessun italiano andrà a combattere in Ucraina (ma chi l'abbia detto non è ancora chiaro, trattandosi di una eventualità che, oltre che lontana e che comunque sarebbe presa da una coalizione di Stati, dovrebbe passare per il Parlamento nazionale) , il vicepremier/ministro/segretario leghista dovrebbe essere continente quando esprime dei giudizi che, per la transitiva data dai vari ruoli che ricopre in seno all'esecutivo, coinvolgono il governo, volente o nolente.
Peraltro costringendo gli alleati - ma non tutti, si badi bene, per qualche imbarazzato silenzio - a ribadire che la politica estera, fino a prova contraria, è intestata al presidente del consiglio e al Ministro degli Esteri.
Ma questo per Matteo Salvini è argomento secondario, rispetto alla linea politica che ha scelto per sé e per la Lega, che ormai vive di riflessi che arrivano dall'esempio di leader stranieri: da Donald Trump (idolatrato, elevato alla gloria degli altari quasi fosse un cocktail della sapienza di Metternich, di Churchill, di Talleyrand, di.. e poi di..., per non parlare di....) a Vladimir Putin (che, invece, nonostante l'esecrabile invasione dell'Ucraina, viene visto - questa è una delle ultime considerazioni di Salvini - il male minore, sempre che sia un male, rispetto al terrorismo islamico, mischiando capra e cavoli).
Forse, davanti a questo quadro desolante di politica e diplomazia, Giorgia Meloni dovrebbe uscire dall'isolamento comunicativo nel quale ha deciso di relegarsi (le interviste, poche e formali, sono concesse solo a chi ne apprezza la politica) e dire, una buona volta, che tutti possono intervenire, ma nel rispetto dei ruoli, che è garanzia di serietà. Perché, se non si condividono alcune scelte di una coalizione, la strada è quella che, dalla manifestazione di un aperto dissenso, porta alla presa di distanza, con le conseguenze politiche susseguenti: salutare ed uscire, facendo deflagrare la diversità dei giudizi in una crisi istituzionale.
Ma questo non accadrà, perché Salvini sa benissimo che uscire dal governo gli provocherà l'erosione del potere che oggi, da ministro, esercita con cipiglio, come raccontano le cronache, con pagine intere di quotidiani a lui dedicate.
Giorgia Meloni però deve tenere insieme la maggioranza e sicuramente non mostrerà all'esterno quel che pensa della diplomazia parallela di Salvini, che si esplica ormai in tutti i campi che - al di fuori di quelli di sua pertinenza - gli interessano, avendo sempre nel cuore il suo irrisolto amore verso il Ministero dell'Interno e le sue prerogative.