FOTO (cropped): Shane Hirschman - CC BY 2.0
Con Ozzy Osbourne se ne va uno degli ultimi veri archetipi del rock, il volto più sfrontato dell’heavy metal, l’uomo che ha urlato contro i benpensanti, contro Dio e contro se stesso, fino a diventare mito. John Michael Osbourne, nato in una grigia Birmingham del dopoguerra, è spirato all’alba di ieri a 76 anni. Accanto a lui, come sempre, c’era la sua famiglia: Sharon, Jack, Kelly, Aimee e Louis.
Addio A Ozzy Osbourne, il rocker che fece del buio una bandiera
A darne notizia è stata proprio la moglie Sharon, con un comunicato scarno ma carico di quella devozione che ha sempre contraddistinto la loro unione: “È con più tristezza di quanta le parole possano esprimere che dobbiamo comunicare che il nostro amato Ozzy Osbourne ci ha lasciati questa mattina. Era circondato dall’affetto dei suoi cari”.
Qualche settimana fa, a Villa Park, nel cuore della sua Birmingham, Ozzy era salito per l’ultima volta su un palco. Era il 5 luglio. C’erano tutti: Geezer Butler, Tony Iommi, Bill Ward. Una reunion breve, cinque brani in tutto, ma che è bastata per suggellare un’epopea nata nel 1969 nei sobborghi industriali di una città che non aveva ancora visto il colore. Lì, tra le fabbriche e l’eco degli Zeppelin, nacquero i Black Sabbath. E con loro, nacque l’heavy metal.
Ozzy, lo sanno tutti, non era un virtuoso. Ma aveva quella voce. Quell’incantata nenia funerea, quel vibrato spettrale che sembrava uscito da una messa nera. E soprattutto aveva il carisma del dannato: il ragazzo che ascoltava i Beatles e poi decideva che no, She Loves You non bastava.
Che serviva qualcosa di più oscuro, più cupo, più vero. Con “Black Sabbath” (1970), l’omonimo album d’esordio, nacque non solo un genere, ma un’estetica: riff granitici, testi apocalittici, immaginari stregoneschi. Paranoid, Iron Man, War Pigs… ogni traccia un colpo di piccone sulla morale borghese. Negli anni Settanta, mentre il punk sputava rabbia grezza e il progressive si avvitava nella propria vanità, Ozzy cantava della follia e del diavolo con una sincerità quasi infantile. E fu proprio quella sua vulnerabilità a renderlo irresistibile. Ma con la fama arrivarono anche le ombre: droga, alcol, eccessi da manuale del perfetto autodistruttivo. Nel 1978 i Sabbath lo cacciano. Sembra finita. E invece no. Perché Ozzy non era un sopravvissuto. Era un rigenerato. Con "Blizzard of Ozz" (1980) inaugura la fase solista. E parte con Crazy Train, forse il suo pezzo più iconico: un treno impazzito tra shred di chitarra e deliri esistenziali.
Lo accompagna Randy Rhoads, chitarrista prodigio che, come spesso accade in queste storie, morirà troppo presto. Eppure Ozzy va avanti. Anzi, prospera. Negli anni Novanta si inventa l’Ozzfest, uno dei festival metal più longevi e influenti al mondo. Lancia nuovi gruppi, mantiene viva la scena, fa da padre spirituale a una generazione di figli perduti. Poi, quando meno te lo aspetti, torna a casa. Riabbraccia i Sabbath, incide “13” (2013), vince Grammy, riempie stadi, sopravvive a cadute, malattie, e persino a un reality. Sì, perché nel 2002 diventa icona pop grazie a MTV e al suo “The Osbournes”, uno spaccato surreale della sua quotidianità tra pipistrelli, parolacce e pantofole. Una conferma definitiva: Ozzy non era solo una leggenda del rock.
Era un personaggio, una maschera tragica, una caricatura che si faceva carne. Ma dietro i siparietti, dietro la figura clownesca e sopra le righe, c’era sempre lui: il ragazzo dislessico che sognava la fama e trovava rifugio nei suoni. Un uomo fragile, segnato dal Parkinson negli ultimi anni, ma mai domo. Perché anche quando il corpo cedeva, lo spirito restava intatto. Quello spirito che lo ha portato a dire, in una delle sue ultime interviste: “La musica mi ha salvato la vita. E io ho cercato di restituirle qualcosa”.
E ci è riuscito alla grande. Perché, piaccia o non piaccia, Ozzy Osbourne ha cambiato la musica, e non per modo di dire. Senza di lui, metà delle band metal e hard rock degli ultimi cinquant’anni non esisterebbe. È stato precursore, disturbatore, clown apocalittico. Ha fatto della blasfemia uno stile, della disperazione una forma d’arte. E oggi che non c’è più, non ci resta che ascoltare. Rimettere su quei vinili graffiati, sentire la sua voce sgorgare da Paranoid o da No More Tears, e capire che sì, il rock può anche morire mille volte. Ma ci sono voci che non si spengono mai.