Per vent’anni sono state tutto: status symbol, oggetto del desiderio, manifesto di uno stile di vita. Le sneaker hanno camminato — anzi corso — attraverso le generazioni con l’aria di chi ha conquistato il mondo. Dalla scrivania dell’impiegato al palco del rapper, dallo streetwear allo street power, erano ovunque.
La sneaker è morta, viva la sneaker! Dentro e fuori la mostra di Düsseldorf
Hanno unito mondi che fino a poco prima si ignoravano cordialmente: skater e banchieri, popstar e meccanici. Infrangevano ogni dress code, con la complicità di una cultura hip-hop che si è presa il suo spazio senza chiedere permesso. Poi, qualcosa si è incrinato. Un clic in meno nei carrelli online, una vetrina in saldo, un collezionista che smonta la teca. La bolla delle sneaker, dopo anni di espansione compulsiva, ha cominciato a sgonfiarsi.
Le Nike Air Jordan, che sembravano destinate all’eternità, hanno iniziato a perdere quota: da 6,99 miliardi di dollari nel 2024 a un presente fatto di sconti generosi, dopo aver più che raddoppiato le vendite rispetto al 2019. Un campanello d’allarme che ha risuonato forte anche durante la mostra “Sneakers” svoltasi a maggio al NRW Forum di Düsseldorf. Lì, sotto le luci del museo, sono finite scarpe nate per la strada.
E la domanda tra i giornalisti serpeggiava con discreto scetticismo: le sneaker meritano davvero un posto in un’istituzione culturale? “Se la mostra contribuisse a far crescere il mercato, sarebbe un successo strepitoso”, ha replicato con un sorriso la curatrice Alina Fuchs, intervistata da Die Welt. In fondo, parliamo di un fenomeno globale: ogni anno si producono venti miliardi di scarpe, di cui un quarto sono sneaker. Nessuna esposizione, per quanto scintillante, potrà arrestare o alimentare davvero questa marea.
Ma a Düsseldorf, il viaggio nel tempo è stato sorprendente. Esposte come reliquie pop, c’erano le mitiche MAG di Ritorno al futuro 2, la loro controparte commerciale del 2015, provocazioni firmate dal collettivo newyorkese MSCHF, bizzarre collaborazioni come Adidas x Lego o Nike x Tiffany, e persino una sneaker stampata in 3D creata dal designer Colm Dillane, alias KidSuper. E se la forma è semplice – come una t-shirt o un paio di jeans, oggetti anch’essi diventati feticci culturali – il contenuto è traboccante di storie.
Perfino Donald Trump, che a febbraio ha lanciato la sua personale linea di sneaker dorate ribattezzate con tono paradossale “Never Surrender”, non ha resistito all’appello. Stivaletti dorati, suola rossa, bandiera americana stilizzata e una “T” stampata sulle fiancate: un mix tra patriottismo kitsch e marketing spinto. Solo mille paia, vendute a 400 dollari l’una: più costose delle Air Jordan “Satin Bred” (in saldo a meno di 100 euro), ma molto più economiche delle Cargo Sneaker di Balenciaga. Intanto, il mercato della rivendita, nato in sordina, è diventato un colosso a sé: piattaforme come StockX e Stadium Goods movimentano milioni, e le aste fanno il resto. Sei paia indossate da Michael Jordan negli anni ’90 sono state battute da Sotheby’s per otto milioni di dollari.
Cifre da capogiro, esposte anche a Düsseldorf, dove cultura pop e culto consumistico si fondono con disinvoltura. Non potevano mancare le Adidas alte dei Run DMC, primi musicisti a ottenere un contratto con un marchio sportivo dopo aver dedicato una canzone alle loro sneaker. E ovviamente le Air Jordan 1, lanciate nel 1985 quando il giovane Michael Jordan fu convinto dalla madre ad accettare l’offerta di Nike – allora un marchio poco cool. Il resto è storia: la linea Jordan è oggi una sussidiaria indipendente, e il mito ha ispirato un film con Matt Damon e Ben Affleck e una serie Netflix. Ma se questo universo sembra esclusivamente maschile, Düsseldorf ha raccontato anche un’altra storia: quella di Julia Schoierer, berlinese, fotografa e collezionista.
Dal 2007 cura un blog come “Sneakerqueen” e possiede circa mille paia, venti delle quali erano in mostra. Non compra per speculare, ma per passione. “Ho un debole per i modelli non-star”, ha dichiarato. Per lei, contano la storia e il contesto. Come le Adidas Equipment amate a Berlino Est dopo la caduta del Muro, o la Jordan 1 “Lost & Found”, invecchiata artificialmente per sembrare uscita da un magazzino anni ‘80 – un tocco nostalgico che, però, secondo Schoierer ha il retrogusto amaro dell’ironia: “Nike, con operazioni come questa, ha spinto alla chiusura i negozi indipendenti che voleva romanticizzare”, dice. Alla fine, anche l’hype più clamoroso può sfiorire. La “Lost & Found”, un tempo oggetto di culto, ora si trova al prezzo originale.
Nel frattempo, la moda si sposta. Le nuove generazioni riscoprono i mocassini: gender-fluid, vintage, comodi ma eleganti. Si portano col completo, ma anche con la tuta. È la rivincita del classico, rivisto con occhi nuovi. Lo chiamano “quiet luxury”, lusso silenzioso, e potrebbe essere la nuova ossessione: materiali pregiati senza loghi urlati, understatement al posto dell’esibizione. Il mondo delle sneaker, intanto, si biforca. Da una parte l’outdoor fashion, o “gorpcore”, con giacche da trekking indossate in metropolitana. Dall’altra, chi guarda al lusso sobrio e a silhouette più adulte. E nel mezzo, collezionisti che osservano preoccupati le loro scatole in plastica diventare improvvisamente investimenti a perdere. Ma la moda è ciclica, e già si sussurra: torneranno. Magari più sobrie, più consapevoli, meno “chunky”. Ma torneranno. Le sneaker non si buttano: si mettono da parte, si riguardano, si reinventano. Come ogni mito che si rispetti.