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Picnic a Hanging Rock: mezzo secolo di mistero, memoria e sfida coloniale

Barbara Leone
 
Picnic a Hanging Rock: mezzo secolo di mistero, memoria e sfida coloniale

Nel cinquantesimo anniversario dell’uscita di ''Picnic at Hanging Rock'' si torna a riflettere su questo capolavoro che ha segnato una svolta decisiva nella storia del cinema australiano e mondiale. Diretto da Peter Weir, allora giovane promessa della New Wave australiana, il film, recentemente restaurato in 4K, si presenta non soltanto come un’opera d’arte sospesa tra mistero e poesia visiva, ma come un’analisi profonda delle tensioni tra colonizzazione, identità culturale e natura selvaggia, temi che ancora oggi riverberano nella società australiana contemporanea.

Picnic a Hanging Rock: mezzo secolo di mistero, memoria e sfida coloniale

L’intreccio è apparentemente semplice, ma la sua forza sta proprio nell’oscurità e nell’ambiguità: nel giorno di San Valentino del 1900, un gruppo di studentesse di un collegio femminile privato, accompagnate dalle loro insegnanti, parte per una gita verso la suggestiva formazione vulcanica di Hanging Rock, a nord-ovest di Melbourne.

Qui, nel cuore di un paesaggio impenetrabile e mistico, tre ragazze e un’insegnante svaniscono senza lasciare traccia. Il mistero rimane irrisolto, lasciando una scia di inquietudine che attraversa l’intera narrazione e che, come osservato dal critico Guido Fink, diventa ''uno studio sulla repressione'' e sul fallimento della logica europea di dominare e comprendere la natura australiana.

Questa mancanza di spiegazione, che ancora oggi può risultare ostico per un pubblico abituato alla certezza narrativa, rappresenta invece il cuore pulsante dell’opera di Weir.
Il regista rifiuta l’epilogo classico, spostando il focus dall’indagine razionale a un’atmosfera onirica, permeata di silenzio e assenza, dove la natura sembra ribellarsi alla colonizzazione e all’ordine imposto dalla cultura britannica che il collegio incarna. Le studentesse, simbolo della femminilità bianca e del controllo sociale, si dissolvono in un paesaggio che non si lascia incasellare né dominare: un paesaggio vivo, carico di memorie ancestrali e di un’antica sacralità, come ricordano i popoli indigeni Dja Dja Wurrung, Woi Wurrung e Taungurung per cui Hanging Rock (Ngannelong) è un luogo di profondo valore spirituale.

Rileggendo oggi ''Picnic at Hanging Rock'' in un’Australia ancora segnata dal dibattito sulla riconciliazione e la sovranità indigena, evidenziata anche dal recente fallimento del referendum sulla Voce Indigena al Parlamento, il film assume un valore emblematico e profetico. Il silenzio che avvolge le sparizioni evoca i ''silenti cancellamenti'' della storia coloniale: una storia fatta di espropriazioni, allontanamenti forzati e negazioni delle identità originarie.

Weir con il suo linguaggio cinematografico forbito e suggestivo - dalla fotografia evocativa di Russell Boyd ai suoni e agli odori che animano le scene - immerge così in un paesaggio che parla un’altra lingua: una lingua della natura che resiste e non si piega alle narrazioni imposte dai colonizzatori. E così, la scomparsa delle ragazze non è solo un evento misterioso, ma una metafora potente della fragilità del potere coloniale e della crisi di un’identità nazionale incerta, costruita su silenzi e dimenticanze.

Un cinema, quello del regista australiano, che si concentra su immagini, sensazioni, atmosfere più che su spiegazioni o azioni. ''La vita non ha finali", ha affermato lo stesso Weir. E in questa visione si coglie il rifiuto del finale tradizionale e la volontà di lasciare lo spettatore in uno stato di sospensione e meraviglia. Cinquant’anni dopo, ''Picnic at Hanging Rock'' rimane un’opera di riferimento imprescindibile, capace di provocare ancora oggi riflessioni sull’identità, sulla memoria e sul rapporto tra uomo e ambiente. Un film che non offre risposte, ma esorta a confrontarsi con ciò che sfugge alla ragione, con ciò che la storia coloniale ha tentato di cancellare ma che il paesaggio, silenzioso e imponente, continua a custodire.

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