Se n’è andato Stefano Benni, e con lui si spegne una delle ultime scintille dell’ironia letteraria italiana. Aveva settantotto anni, ma era come se la sua voce avesse avuto sempre l’energia di un ragazzo che non si arrende mai al grigiore dei tempi. Era nato a Bologna il 12 agosto del 1947, e da quella città aveva preso la passione per i bar, i luoghi di ritrovo, i microcosmi popolati di figure improbabili eppure verissime.
Bar Sport, ultima chiamata: ci lascia Stefano Benni
Con Bar Sport, nel 1976, aveva dato vita a un universo satirico che da allora non ha smesso di respirare, di ridere e di raccontarci meglio di qualsiasi saggio politico il cuore tragicomico del nostro Paese. Al centro, regina immortale di quel mondo, c’era lei, la Luisona. Non un semplice dolce, ma un fossile zuccherato sopravvissuto dal 1959 in una vetrina di provincia, pastarella ingiallita e indigeribile, barometro meteorologico e mito nazionale. La sua crema cambiava colore come un presagio, il suo aspetto immutabile raccontava un’Italia immobile, eppure capace di farsi notare sempre, e quasi sempre per il peggio. Mangiarla era un atto fatale, un rito iniziatico, la madre di tutti i trigliceridi. In quella invenzione c’era tutto Benni: la capacità di trasformare un dettaglio minuscolo in allegoria universale, il talento di inventare leggende dove la realtà non bastava più.
Con lui la satira italiana perde non solo un autore, ma un modo di guardare il mondo. Perché Benni non scriveva per consolare, ma per graffiare. Nei suoi libri la realtà entrava deformata e usciva più vera che mai, come in uno specchio da luna park che, nel rifletterci, ci fa ridere e rabbrividire insieme. “Comici spaventati guerrieri”, “La compagnia dei Celestini”, “Il bar sotto il mare”, “Stranalandia”… ogni titolo era un invito a varcare la soglia di un pianeta alternativo, popolato da creature bizzarre eppure familiari, perché somigliavano a noi nei nostri difetti più inconfessabili.
Era stato poeta, narratore, giornalista, autore teatrale e cinematografico, compagno di strada di artisti come Dario Fo, Franca Rame, Daniel Pennac, persino autore di testi per un giovane Beppe Grillo quando faceva ancora il comico. Amava Beckett e Kubrick, citava Eliot e Poe, e aveva un talento naturale per attraversare le arti senza mai piegarsi a nessuna di esse. La sua penna scivolava con la stessa facilità in un racconto, in una recensione per l’Espresso, in una sceneggiatura o in un reading accompagnato da musicisti. Credeva nella parola detta ad alta voce, letta e condivisa, perché i libri non dovevano restare chiusi in una biblioteca ma diventare vita, incontro, risata comune.
Negli ultimi anni la malattia gli aveva tolto la parola, ma non la capacità di inventare mondi. Lo ricorda oggi il figlio Niclas con un invito semplice e perfettamente benniano: leggere ad alta voce le sue opere a chi ci sta vicino, agli amici, ai figli, agli amanti. Perché Benni, più che un autore da venerare in silenzio, è stato uno scrittore da ridere insieme, da citare al bar come una barzelletta colta, da tirare fuori in compagnia come un vecchio vino che migliora col tempo. Un visionario capace di raccontare un’Italia pigra e rissosa, innamorata dei propri vizi e incapace di liberarsene, ma sempre con una leggerezza che non era mai superficiale. Con lui chiude per sempre il Bar Sport, e insieme si spegne un modo di intendere la letteratura che non chiedeva di essere incasellata in alcun genere. Benni era solo Benni. E questo basta per capire che la sua perdita non è soltanto un lutto letterario, ma un vuoto di immaginazione.