Cultura

Addio a Tom Lehrer, il matematico che fece ridere l’America della sua stessa ipocrisia

Barbara Leone
 
Addio a Tom Lehrer, il matematico che fece ridere l’America della sua stessa ipocrisia

Lo chiamavano “cantautore satirico”. Ma Tom Lehrer era molto di più: un matematico con la grazia del cabaret, un professore che parlava di avvelenare piccioni nei parchi pubblici con la stessa eleganza con cui Mozart scriveva minuetti. Uno capace di spiegarti la corsa agli armamenti nucleari con un motivetto da musical anni Quaranta. Capace di ridere di tutto, soprattutto di sé, e di farlo con tale intelligenza da risultare intollerabile per l’America dei sorrisi finti e delle buone maniere obbligatorie.

Addio a Tom Lehrer, il matematico che fece ridere l’America della sua stessa ipocrisia

Era nato a New York nel 1928, cresciuto nella borghesia ebraica colta dell’Upper West Side, e a soli 19 anni era già laureato ad Harvard in matematica. Da lì, un po’ per gioco e un po’ per fastidio verso la serietà del mondo accademico, cominciò a scrivere canzoni. Non canzoni d’amore, che evidentemente lasciava volentieri ai disperati, ma canzoni ''contro''.

Contro la guerra, contro l’inquinamento, contro i moralisti, contro l’idiozia istituzionalizzata. Le cantava seduto al piano con un sorriso sghembo, come se dicesse: “Non è colpa mia se il mondo è così idiota”.
La sua hit più celebre è forse Poisoning Pigeons in the Park, dove descrive con finto entusiasmo la gioia di sterminare piccioni con esche avvelenate la domenica pomeriggio. Ma anche The Elements, l’elenco di tutti gli elementi chimici cantato sulla melodia di The Major General’s Song di Gilbert & Sullivan, un gioiello nerd da standing ovation.

E poi So Long, Mom (A Song for World War III), in cui immagina un figlio che parte per bombardare l’Eurasia, con tanto di dedica affettuosa alla mamma casalinga americana. Lehrer, insomma, non risparmiava nessuno.

Né i religiosi ipocriti né i liberali con la coscienza pulita e la puzza sotto il naso. E per questo, ovviamente, fu ignorato dalla televisione, censurato dalle radio e accolto con diffidenza anche da molti colleghi più “impegnati”. Ma non gli importava granché. “Mi considero un intrattenitore”, diceva. “Le mie canzoni non servono a cambiare il mondo, servono a riderne”. E forse proprio in questa consapevolezza disillusa c’era la sua grandezza.

Negli anni ’60, all’apice della popolarità, decise di ritirarsi dalle scene. Non per crisi mistica, ma per noia. “Non mi piace esibirmi. Mi piace scrivere”, spiegò. Così tornò alla matematica e insegnò per anni al MIT e poi a Santa Cruz, in California, tra lezioni di calcolo e seminari su canzoni demenziali. Rifiutò premi, inviti, revival.

Quando lo cercavano, rispondeva con una battuta o non rispondeva affatto. Sparì così come era apparso: con discrezione e con un certo gusto per l’invisibilità. Nel 2020, a sorpresa, regalò al mondo tutto il suo repertorio. Mise online ogni spartito, ogni testo, ogni registrazione, dichiarandoli di pubblico dominio.

“Non ci sono più soldi da fare con queste canzoni”, scrisse sul suo sito. “E comunque non mi servono”. Un gesto irriverente e a suo modo rivoluzionario, nel tempo dell’egocentrismo digitale. E perfettamente coerente con la sua figura: un uomo che aveva capito che l’unico vero modo per essere liberi è fregarsene dell’applauso. Il suo umorismo ha influenzato generazioni intere: da Randy Newman a Weird Al Yankovic, passando per Daniel Radcliffe, che lo ha definito “l’uomo più brillante e divertente del XX secolo”.

Ed è difficile dargli torto. Lehrer riusciva a essere divertente parlando di genocidi, elegante parlando di flatulenze, acido senza mai essere volgare. Era, in fondo, l’incarnazione di una forma d’intelligenza che oggi sembra estinta: quella che non ha bisogno di gridare per farsi ascoltare. Una mente lucida, ma anche una voce libera, ironica, capace di trasformare la rabbia in musica leggera, e la delusione in poesia da cabaret.

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